Ettore Livini, la Repubblica 24/10/2008, 24 ottobre 2008
MILANO
L´effetto domino della crisi dei subprime, dopo aver messo ko le Borse e le banche mondiali rischia ora di travolgere una per una le economie più fragili dei paesi emergenti. Il crac dell´Islanda, costretta a chiedere aiuto al Fondo Monetario dopo il fallimento delle sue prime tre banche, è stato solo l´antipasto. La coda alla porta dell´Fmi si è già allungata: Ungheria, Bielorussia, Ucraina e Pakistan si sono presentate a Washington con il cappello in mano, a caccia di quella liquidità di cui hanno bisogno come il pane per finanziare i propri deficit. La presidenta argentina Cristina Kirchner vuol nazionalizzare i 29 miliardi custoditi nelle casse dei fondi pensione privati per onorare il debito pubblico. Una mossa a sorpresa che ha riportato a Buenos Aires il fantasma del default 2001, spingendo al 33% il rendimento dei titoli di stato in dollari.
Gli scricchiolii delle ex-tigri dell´economia globale – verso cui le banche italiane, assicura la Bri, sono «poco esposte» – hanno già avuto un effetto deflagrante sui mercati. I grandi investitori hanno iniziato da qualche settimana a vendere a piene mani azioni e bond di queste aeree: le Borse emergenti hanno perso il 35% in un mese, più del doppio dei listini europei e Usa. I titoli di stato sono scesi del 22% da gennaio, con un rendimento superiore dell´8,64% ai T-Bond Usa, il massimo dal 2002. Se uno solo di questi paesi arriverà al crac smettendo di pagare i suoi debiti – dicono gli analisti – c´è il rischio che una montagna di credit default swap si trasformi in carta straccia, dando il colpo di grazia alla finanza globale.
La mappa delle nazioni a rischio di collasso finanziario è un melting pot senza confini, che va dal Sudamerica all´Asia e arriva a sfiorare persino la Ue. La fuga di capitali, ad esempio, ha spedito ai minimi dal 1999 il fiorino ungherese. Budapest è stata costretta ad alzare in un solo giorno di 3 punti (dall´8,5 all´11,5%) il tasso di sconto. Ma nemmeno il salvagente da 5 miliardi lanciato da Bruxelles ha fermato la caduta libera della valuta magiara. E il cerino rischia ora di bruciare le dita agli ungheresi che approfittando dei tassi bassi si sono indebitati in massa (il 62%) in euro e franchi svizzeri.
Nell´occhio del ciclone ci sono anche le repubbliche asiatiche dell´ex Unione sovietica. Tutte crescono a tassi astronomici (il Pil del Kazakhstan, ad esempio, ha registrato dal 2000 rialzi annui superiori al 10%). Ma il boom è stato drogato da un´overdose di debiti. E oggi che sul mercato non si trova più un centesimo di liquidità, i nodi arrivano al pettine. La Bielorussia – piegata da un deficit delle partite correnti alle stelle e da un crollo a 4,2 miliardi delle riserve valutarie – è stata la prima ad alzare bandiera bianca, chiedendo all´Fmi 2 miliardi di dollari. Anche un paese relativamente ricco come l´Ucraina (399 miliardi di pil) è stato costretto a una disonorevole trasferta a Washington dove ha chiesto 15 miliardi al Fondo Monetario per rifinanziare il debito. Il Kazakhstan per ora fa da sé e ha stanziato 10 miliardi guadagnati grazie ai suoi giacimenti per puntellare il sistema bancario.
Lo tsunami finanziario va in replica amplificato anche in Russia. Gli analisti, in questo caso, sembrano tranquilli e non vedono rischi di crac. Ma Mosca ha già dovuto stanziare il 15% del suo Pil per salvare gli istituti di credito e ha gettato al vento in due settimane 14,9 miliardi di riserve per provare a tenere a galla il rublo. Senza troppo successo, però, tanto che S&P ha messo sotto osservazione ieri per un possibile taglio il rating del paese.
In Asia sono sull´orlo della crisi – per motivi diversi – Pakistan e Corea del Sud. Karachi, messa in ginocchio dal terrorismo e da uno stallo politico appena sbloccato, è alle prese con la rupia al minimo storico, un debito record e l´inflazione al massimo da 30 anni. Un quadretto reso ancor più fragile dalle scadenze sul debito in valuta (5 miliardi da pagare nel 2009). L´Fmi ha già il dossier sotto la lente ma anche gli Usa stanno lavorando per evitare il crac del più fedele alleato nella guerra ai talebani. Seul, dove pure l´economia cresce del 3,7% annuo, ha visto lo won perdere il 33% in pochi mesi scivolando ai minimi dal 1998. Il Fondo Monetario, dieci anni fa, aveva speso 60 miliardi per salvare la Corea. A Washington sperano di non dover concedere il bis.