Bondi-Isotta, Corriere della Sera 24/10/2008, 24 ottobre 2008
Caro Direttore, l’articolo pubblicato dal Corriere della Sera, «Ci vuole un Parsifal al Teatro San Carlo», mi ha amareggiato, soprattutto perché stimo e ammiro Paolo Isotta
Caro Direttore, l’articolo pubblicato dal Corriere della Sera, «Ci vuole un Parsifal al Teatro San Carlo», mi ha amareggiato, soprattutto perché stimo e ammiro Paolo Isotta. Se un uomo di cultura del livello di Paolo Isotta è indotto a travisare completamente le mie parole e a trattarmi come un incolto politicante, vuol dire che non riesco proprio a far capire il mio sincero amore per la cultura e l’impegno totale che cerco di dedicare a tutte le diverse espressioni culturali del nostro Paese. Ha ragione chi ha ricordato che nel dibattito tra maggioranza e opposizione, e di conseguenza nel discorso pubblico in Italia, la realtà non riesce ad avere alcun peso: contano solo le opinioni e i fatti zero. Provo ancora, con sempre maggiore fatica e sfiducia, a parlare dei fatti e, sulla base dei fatti, a tentare di illustrare la mia posizione. I fatti sono i seguenti. Le tredici fondazioni lirico-sinfoniche hanno accumulato, solo dal 2002 ad oggi, deficit per 160 milioni di euro e i debiti iscritti nello stato patrimoniale superano i 290 milioni di euro, avendo ormai depauperato in maniera quasi irreversibile i patrimoni dei vecchi enti lirici; i costi fissi legati agli stipendi ed ai trattamenti economici dei 5.500 dipendenti delle fondazioni sono ammontati per l’anno 2007 a ben 343 milioni di euro: una cifra di gran lunga superiore ai contributi pubblici erogati nello stesso anno; i ricavi da biglietteria non arrivano a coprire per la maggior parte di esse nemmeno il 10% delle spese sostenute. Nessuno può ignorare questi dati della realtà, neppure gli uomini di cultura, perché la cultura è anche impegno civico, responsabilità di fronte all’intera società. Dall’esame di questa situazione sono partito, con serietà e rigore, per trovare una soluzione condivisa e per non rimandare ulteriormente una decisione che tutti, a partire dai sindaci interessati, ritengono indifferibile. Isotta ha ragione a considerare «nefasta la trasformazione degli Enti Autonomi in Fondazioni di Diritto Privato» per il mondo musicale italiano. L’ho sostenuto anch’io, ricordando che il nuovo regime delle Fondazioni avrebbe dovuto coinvolgere le realtà locali (dagli enti locali ai soggetti privati) nella gestione e nella valorizzazione dei teatri. In realtà è avvenuto che le Fondazioni non hanno favorito il coinvolgimento delle realtà locali, e lo Stato ha continuato a finanziare e a pagare i debiti accumulati, senza avere alcuna responsabilità nella gestione dei teatri. Anche per questo ho indicato una via d’uscita da questa situazione. Una proposta che intendo discutere con gli enti locali e sottoporre al Governo ed al Parlamento. Una proposta aperta a tutti i possibili suggerimenti. Si tratta della possibilità di trasformare La Scala di Milano, che gode di un indubbio riconoscimento internazionale, in una fondazione lirica di interesse nazionale. Allo stesso modo l’Accademia di Santa Cecilia di Roma potrebbe diventare una fondazione concertistica nazionale. Ciò non significa in alcun modo intaccare il valore culturale delle altre fondazioni lirico-sinfoniche o tantomeno sottrarre ad esse il finanziamento dello Stato attraverso il fondo unico per lo spettacolo. La realtà storica e culturale italiana – lo so bene – è tale per cui non vi può essere una differente dignità culturale tra La Scala di Milano e il San Carlo di Napoli, peraltro risanato e amministrato con sapienza dal dottor Nastasi, brillante funzionario dello Stato e mio capo di gabinetto al Ministero dei beni culturali. Ciò che differenzia la Scala dal San Carlo è, in questo momento, unicamente il loro diverso grado di autonomia rispetto alle risorse statali. Nel tempo, e gradualmente, la mia previsione è che tutti i teatri italiani, non solo La Scala di Milano, possano raggiungere un equilibrio accettabile tra le risorse statali, quelle degli enti locali, dei privati e le entrate ordinarie. Come del resto avviene in tutti i Paesi del mondo. Vorrei rassicurare Paolo Isotta che amo i nostri teatri – tutti – tanto quanto amo la poesia. Vorrei però che tutti li amassero, non a parole ma nei fatti. Vorrei che i nostri teatri fossero considerati dalle forze economiche, sociali e culturali delle realtà locali come un bene prezioso, una risorsa da difendere e da tutelare, come un luogo essenziale per il proprio arricchimento culturale e spirituale, come è stato nel passato anche per le classi popolari. Paolo Isotta è sicuro che sia così anche oggi, visti i dati che ho fornito? Io non lo credo, ma, come Isotta, sono disposto ad impegnarmi perché lo diventino, e continuino ad essere il vanto della cultura del nostro Paese. ministro dei Beni e delle Attività culturali Non sono assolutamente d’accordo con l’idea del ministro Bondi di trasformare due sole in «Fondazioni di interesse nazionale», e se proprio su questa strada si volesse procedere non vedo come da questo rango possa escludersi, per i motivi già esposti, il Teatro San Carlo. In via incidentale, non posso nemmeno essere d’accordo con una dichiarazione rilasciata ieri dall’amico onorevole Italo Bocchino al Corriere del Mezzogiorno in ordine alla ulteriore permanenza del dottor Nastasi quale commissario: egli lascerà questa carica quando riterrà di avere svolto il suo compito. Suggerirei invece al ministro Bondi di non progettare novità: il suo nome resterebbe assai più fermo nella Storia s’egli riuscisse a fare tornare il regime legislativo quo ante, ossia riportare le Fondazioni a Enti Autonomi. Altro aggiungerei, ma il garbo con che è concepita la lettera del ministro Bondi me ne distoglie. Buon lavoro, cara Eccellenza. (p. i.)