Laura Olivetti, La Stampa 24/10/2008, 24 ottobre 2008
La Olivetti compie cent’anni. Un compleanno che mi ricorda il film di Carlos Saura Mamà compie cent’anni
La Olivetti compie cent’anni. Un compleanno che mi ricorda il film di Carlos Saura Mamà compie cent’anni. L’associazione non è del tutto casuale perché la Olivetti ad Ivrea è stata vissuta, per molti anni, come una mamma. Una mamma buona o cattiva, a seconda dei momenti, ma mai estranea e sempre presente nella vita di molti. I miei primi ricordi sono legati più a sensazioni che a fatti, sono più emotivi che obiettivi. Per me, bambina che viveva ad Ivrea negli anni Cinquanta, la Olivetti era la «Ditta» ed in «Ditta» lavorava mio padre Adriano che era l’Ingegnere. Avevo ben chiaro che non fosse un dipendente qualunque, ma la cosa non mi interessava né mi incuriosiva, semmai in alcune situazioni mi imbarazzava. Ricordo che una volta fece visita alla scuola che frequentavo e venne nella mia classe. Ricordo bene quel momento perché mentre diceva sorridendo «Qui c’è una bimba che conosco molto bene» io avrei voluto sprofondare sotto terra. Volevo in fondo, come tutti i bambini, sentirmi uguale agli altri. I ricordi più belli legati a mio padre e alla «Ditta» sono le passeggiate da casa nostra ai suoi uffici, il sabato o la domenica, quando mi chiedeva di accompagnarlo per fargli compagnia durante il lavoro. Ricordo la fabbrica silenziosa, le passeggiate nelle officine vuote in cui mi colpivano le lunghe file di macchine per scrivere appese ai nastri portanti e le grandi finestre che guardavano da un lato le montagne e dall’altro la collina di Monte Navale. La fabbrica era per me un’entità presente nella vita della mia famiglia, dei miei amici, della mia città. Era quello che faceva muovere tutto, era al centro del pensiero e dei discorsi fatti in casa. Era parte della famiglia, intesa veramente come una «persona» di famiglia, non un’altra cosa. C’era. E non poteva che esserci. Per certi versi anche mio padre era, per me, identificato con la «Ditta». Poi c’era il padre papà, del quale ho dei ricordi, ma sono ricordi personali come lo sono per altri quelli dell’Adriano fratello, zio, nonno... Perché era anche tutto questo e lo era in maniera semplice. Si diceva di lui che poteva avere occhi gelidi, io non ne ho memoria, ma credo che potessero diventarlo quando sentiva di essere tradito o se temeva una menzogna. La menzogna era per lui intollerabile e certamente era questo un aspetto che gli proveniva dalle sue origini protestanti valdesi. Ho ricevuto da mio padre una unica punizione, non guardare la tv per una settimana, perché avevo detto una bugia. Ricordo questa scena come fosse ieri. Poi Adriano è morto. E’ morto l’Ingegnere, il padre, il marito, il fratello... Io ero piccola, c’era tanta confusione, tanta preoccupazione ed anche tanto dolore. L’ultima immagine di quella Olivetti, parte del mio quotidiano, è legata all’arrivo del feretro di mio padre nel Salone dei 2000. Capivo e non capivo quello che stava accadendo, e soprattutto non potevo immaginare che per molti stava finendo un mondo e che la mia vita non sarebbe stata più la stessa. La nascita della Fondazione Adriano Olivetti, a meno di due anni da quel giorno, fu la risposta «di vita» a ciò che si temeva potesse sparire insieme con Adriano. Dopo la sua morte, mia madre ed io ci trasferimmo a Roma e per me Ivrea era solo la mia casa disabitata e triste e le case abitate ed accoglienti delle mie zie, Elena e Silvia, che mi hanno accompagnata con affetto e consigli per tanti anni. La Olivetti è ricomparsa nella mia vita in maniera prepotente nel 1978 quando arrivò Carlo De Benedetti. Sebbene negli anni il ruolo della famiglia si fosse molto ridimensionato, allora mi sembrò comunque un’usurpazione. Mio fratello Roberto mi spiegò le ragioni per le quali «era bene così» ed io cercai di capire. Il tempo diede ragione a Roberto e con Carlo De Benedetti la Olivetti, anche se con sacrifici, riprese un cammino di innovazione e crescita. Oggi credo che Roberto fosse, tra noi, la persona ad avere il più spiccato senso della realtà e dei limiti che la realtà impone. Fu verso l’inizio degli anni Novanta che una serie di circostanze fecero scattare in me la sensazione che occuparsi della Fondazione fosse un obbligo morale. Erano gli anni dei grandi cambiamenti per l’azienda e avevo paura che la Fondazione potesse ridursi ad una vestale del passato. Poi il luglio del 2003: il nome Olivetti viene fatto scomparire dallo scenario dell’impresa italiana. Un’offesa, non solo per la mia famiglia, ma anche per tutti coloro che avevano dato alla Olivetti passione, intelligenza, competenze e spesso anche la fatica delle loro braccia e delle loro mani. Ad Ivrea, il nome Olivetti ed i suoi valori non scomparivano certamente come un titolo dal listino di Piazza Affari. E’ stata questa la spinta che ha riportato la Fondazione ad Ivrea per lavorare alla valorizzazione degli asset intangibili che ancora esistono e che attraverso il capitale umano producono innovazione, i germogli dei semi lasciati dalla Olivetti.