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 2008  ottobre 19 Domenica calendario

La Stampa, domenica 19 ottobre Presidente Montezemolo, dopo l’esperienza in Confindustria è tornato a lavorare a tempo pieno in Fiat e Ferrari

La Stampa, domenica 19 ottobre Presidente Montezemolo, dopo l’esperienza in Confindustria è tornato a lavorare a tempo pieno in Fiat e Ferrari. Dal suo osservatorio che crisi è questa? Che ripercussioni avrà sull’economia? E’ d’accordo con chi prevede che la ripresa arriverà a fine 2009? La mia impressione è che si tratti di una stima al momento ottimistica. «E’ troppo presto per dire cosa accadrà e come cambierà il mondo. Di certo la crisi è strutturale e sarà ancora molto lunga. Fino ad ora ne abbiamo sperimentato soprattutto gli effetti finanziari e solo le prime ricadute che avrà sull’economia reale e sui consumi. Quel che conta è ricordarsi la lezione di Roosevelt: "L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa". E occorre avere fiducia, anzi farla diventare una malattia contagiosa». Che intende quando parla di un mondo che cambia? «La lunga fase espansiva che abbiamo vissuto ha provocato distorsioni che ora vengono corrette in modo traumatico. E’ accaduto in passato e accadrà ancora. I momenti in cui preoccuparsi di più sono quelli di boom borsistico e facili guadagni, che ciclicamente coincidono con una fase di degenerazione del capitalismo. I momenti di crisi sono quelli in cui il capitalismo si rigenera. Finisce l’eccessivo ricorso alla leva finanziaria, tornano a prevalere i fondamentali, la fabbrica, il lavoro di chi sa innovare e rischiare. Noi imprenditori abbiamo il dovere di continuare a credere nel Paese, tenere i nervi saldi, investire con maggiori mezzi propri, perché le imprese sono troppo poco capitalizzate. Altro che fine del capitalismo, questo è il capitalismo sano». Ma di chi è la colpa di quanto accaduto? Ci sarà pur qualcuno che dovrà pagare. «Attenzione, sarebbe sbagliato mettere l’industria contro la finanza, ma bisogna dire le cose come stanno: i mutamenti riguarderanno anzitutto il settore creditizio, dove l’ingordigia e la speculazione, soprattutto americana, hanno prodotto la distruzione di risorse che cittadini ed imprese gli avevano affidato. Speriamo si chiuda definitivamente la stagione della finanza creativa - nel pubblico e nel privato - e delle ricchezze costruite sulla speculazione». E le banche italiane? Il ministro Tremonti ha detto che sono solide anche perché un po’ arretrate. «Le nostre banche non si sono in genere mostrate avventuriste, e questo è uno dei motivi per cui il sistema è solido». Ora però in molti, a partire da Confindustria, paventano il rischio che il credito si contragga. Lei è preoccupato? «E’ indispensabile rimettere in moto i meccanismi della liquidità. Le banche devono dimostrare di saper svolgere la funzione di sostegno alla crescita del Paese: è ciò che giustifica l’utilizzo di danaro pubblico per aiutarle in questo frangente. Se non vogliamo che la recessione si trasformi in depressione, ogni euro disponibile andrà utilizzato per finanziare le imprese che investono. Con particolare riguardo alle piccole e medie». A proposito di denaro pubblico. Che giudizio dà dei decreti salva-banche del governo? «Il governo si è mosso bene e in modo autorevole. E’ un buon viatico, visto che d’ora in poi l’azione dello Stato diventerà centrale. Stiamo però attenti a non confondere la necessità di uno Stato più forte in un periodo di transizione, con il rischio di uno Stato invadente e che, in Italia come altrove, abbia la tentazione di soffocare gli spazi di libertà economica, magari imponendo i suoi uomini nelle imprese. Al di là dell’emergenza, è importante che lo Stato resti arbitro e non torni a fare il giocatore. Di nuove Iri non ne sentiamo il bisogno». In termini culturali il suo discorso mi è chiarissimo. Ma se dovesse dire una misura concreta che si aspetta dal governo di qui a pochi giorni o settimane? «Tutto ciò che è necessario per evitare che le ricadute di questa crisi, tutta finanziaria, vengano pagate da imprese e lavoratori. E’ giusto anche valutare il tema delle offerte ostili: abbiamo un patrimonio di piccole e medie aziende ad alta tecnologia che è bene difendere». E dell’ingresso dei libici in Unicredit che ne pensa? «Si tratta di una quota minoritaria, non sono contrario. E’ la dimostrazione che si tratta di una banca forte». Dunque fra più Stato nelle banche e più apertura all’estero preferisce la seconda strada? «Se ci si muove in una logica di reciprocità, assolutamente sì». E da parte dell’Europa che tipo di intervento auspica? «Questa crisi ormai sta pesando sull’economia reale e sui consumi. Ciò significa avere anche una politica coerente in Europa, che in questi giorni si è finalmente mossa in modo efficace e coordinato, e per una volta ha indicato la via giusta agli Stati Uniti. Bene il governo ha fatto a battersi affinché si superino le rigidità autolesioniste sul pacchetto ambiente e sulla normativa CO2. Mi aspetto inoltre che la Bce prosegua sulla strada del calo dei tassi di interesse con più urgenza e coraggio». Si parla anche di sostegni pubblici al settore dell’auto. Che giudizio ne dà? «Penso si debba guardare a sostegni mirati a settori innovativi e strategici. Dal momento in cui gli Stati Uniti hanno deciso di aiutare il settore dell’auto con 25 miliardi di dollari, l’Europa deve tenerne conto, perché altrimenti si creerebbe una competizione impari». La Fiat è in salute? «La Fiat è un’azienda sana, che oggi non è solo Italia, non è solo Brasile, non è solo auto. Ha prodotti di eccellenza in settori importanti: veicoli industriali, macchine agricole, movimento terra. Non appena le condizioni dei mercati miglioreranno, la Fiat ha tutte le carte in regola per crescere ancora. Se questa crisi fosse avvenuta tre anni fa, non saremmo mai stati in grado di sostenerla». Del resto dell’azione del governo che pensa? Su alcuni provvedimenti - penso alla scuola - credo stia facendo quel che è giusto fare. Su altri ho qualche perplessità. Penso in particolare alla scarsa selettività dei tagli alla spesa pubblica. «Il Paese, dopo un lungo periodo di paralisi decisionale, chiede alla politica di fare scelte forti. Devo dare atto al governo di aver capito questo sentimento e cominciato a prendere le decisioni di cui c’era bisogno. Sono d’accordo: la Gelmini sta facendo un ottimo lavoro. Trovo positiva l’impostazione della Finanziaria triennale, i provvedimenti sulla sicurezza, sull’emergenza rifiuti, il ritorno al nucleare, la detassazione del salario variabile, le prese di posizione contro l’assenteismo nella pubblica amministrazione. Ciò detto, non dimentichiamo che, prima della crisi, l’Italia era agli ultimi posti in Europa per tasso di crescita. E che ogni crisi porta con sé la possibilità di uno scatto in avanti o - se viene assunta come un alibi - il rischio di regredire. Adesso per il governo inizia la parte più difficile del lavoro». La mia convinzione è che uno dei problemi più gravi del Paese sia la mancanza di meritocrazia. Il mio maestro Claudio Napoleoni diceva che il conflitto vero non è fra capitale e lavoro, ma fra lavoro e non lavoro, cioè fra chi produce e chi no. «Il Paese è spaccato a metà, e non da oggi: fra ricchi e poveri, Nord e Sud, chi lavora e chi vive sulle risorse prodotte da altri». Crisi finanziaria a parte, cosa si aspetta dal governo per i mesi a venire? «La lista delle cose da fare è impressionante. Occorre rimuovere in profondità le incrostazioni che bloccano l’Italia dopo troppi anni di non decisioni da parte di governi di entrambe le coalizioni: efficienza della macchina pubblica, federalismo, mobilità sociale, meritocrazia, immigrazione, tagli selettivi alla spesa per reperire le risorse necessarie ad investimenti strategici come ad esempio le infrastrutture. Per affrontare e risolvere questi problemi c’è bisogno di un progetto Paese che sappia trasformare - e non cavalcare - le paure dei cittadini. Non possiamo accontentarci del piccolo cabotaggio, ma decidere dove vogliamo essere fra cinque anni. Ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte». E il taglio delle tasse? Ho la sensazione che stiate abbandonando la battaglia. «Assolutamente no, però oggi, con la scarsità di risorse, bisogna pensare anzitutto alla detassazione dei redditi più bassi da lavoro dipendente, coloro che non evadono e che faticano sempre di più a sostenere le spese di una famiglia. Pensi ai libri di scuola: quando ero giovane mio padre mi dava i soldi per comprarli nuovi, invece io li prendevo usati e mi tenevo il resto. Oggi dopo un anno sono da buttare via...». Per fare tutto questo ci vogliono molte risorse, e il rischio è che il governo abbandoni la strada del rigore. Oppure crede sia utile usare la flessibilità sul deficit concessa da Bruxelles? Ce lo possiamo permettere con il nostro debito pubblico? Io ne dubito. «Il rigore non si può abbandonare: è indispensabile rimodulare la spesa sociale, che oggi serve anzitutto a coprire le pensioni, e ad inseguire una spesa sanitaria fuori controllo. Margini per recuperare risorse ci sono dappertutto, a cominciare dall’abolizione di alcune province. Se poi l’Europa ci dà un piccolo margine di flessibilità, pensiamo a infrastrutture, ricerca e scuola». Da uno studio fatto con i miei collaboratori emerge che il progetto di federalismo fiscale varato dal governo, se per la sanità assumerà come standard il costo pro-capite della Toscana, farà salire la spesa in tutte le Regioni del Sud ad eccezione di Abruzzo e Molise. Io sono un sostenitore del progetto, ma mi chiedo se abbiamo bisogno di un simile federalismo. Che ne pensa? «E’ chiaro che se c’è un settore in cui in questi anni la spesa è cresciuta molto è quello degli enti locali. Di certo non può aumentare, anzi deve diminuire, meglio in una logica selettiva». Ma crede o no alla reale efficacia del progetto? «Assolutamente sì, ma conoscendo il Paese ho molti timori. Aspettiamo di vedere i numeri. Il federalismo fiscale funzionerà se le Regioni verranno messe nelle condizioni di farsi una sana "concorrenza" sui servizi ai cittadini e alle imprese. Spero che il governo lavori a questo obiettivo». Io credo che per varare un progetto così importante ci dovrebbe essere lo sforzo comune di entrambi i poli. Eppure Berlusconi sembra mosso dalla tentazione di far da sé. «Credo che il governo farebbe un errore se ritenesse di poter risolvere tutto da solo evitando il dialogo con l’opposizione. In questo atteggiamento - come lei ha detto benissimo qualche giorno fa - vedo insito il rischio di sottovalutare la complessità dei problemi dell’Italia». A me pare però che il Pd in questa fase sia preoccupato per il responso delle prossime elezioni europee, tema di scendere sotto il 30% dei consensi e per questo stia un po’ rincorrendo Di Pietro sul terreno della protesta. «L’opposizione ha tutto il diritto di scendere in piazza, ma devo ammettere che in un momento come questo mi sfugge il senso e la finalità della manifestazione del 25 ottobre. Dobbiamo evitare il riemergere di vecchi modi di confrontarsi da parte di entrambi gli schieramenti. Bisogna rigettare sia le tentazioni di populismo che quelle di protesta a prescindere. Su alcune riforme fondamentali avremmo invece bisogno di uno sforzo condiviso delle persone più responsabili di entrambi gli schieramenti, per il bene del Paese». Guardandosi indietro ha rimpianti sulla sua esperienza alla guida di Confindustria? C’è chi l’ha rimproverata di essere stato troppo morbido con la Cgil sulla riforma del modello contrattuale. «Ricordo ancora quando Guglielmo Epifani si alzò dal tavolo dopo un duro scontro verbale con l’allora segretario Cisl Savino Pezzotta. Era il 2004, il mio primo mese di presidenza. Per quattro anni ho aspettato che nella Cgil maturasse la consapevolezza di quanto fosse necessaria la riforma. Mi sono battuto perché fosse superato un modello arcaico e centralistico che frena la crescita e concorre a tenere i salari a livelli mediocri. Allora non volli forzare i tempi della trattativa, né creare rischi di conflitto sociale alle imprese già impegnate nella sfida dell’euro. Non ho rimpianti. Però dico che ora il tempo a disposizione per la trattativa sta finendo». Crede che se non si troverà l’intesa Emma Marcegaglia debba firmare un accordo separato con Cisl e Uil? «Invito il segretario della Cgil a valutare bene la responsabilità che si assumerebbe anzitutto con i lavoratori dicendo un’altra volta no. Il testo di cui stanno discutendo, tra l’altro, è quasi uguale a quello che avevamo sul nostro tavolo tre anni fa. Ma se l’ottimo lavoro di Emma e Alberto Bombassei non sarà bastato, dovremmo forse continuare ad aspettare indefinitamente mentre il mondo va avanti veloce?». Cosa direbbe alla Marcegaglia per convincerla a tirare dritto? «Non credo ne abbia bisogno, perché sa benissimo che nel 2008 c’è l’assoluta necessità di uscire da questo immobilismo. Ma se riunisse una platea di operai per chiedergli se sono d’accordo, sono sicuro le direbbero di sì. Certe volte i lavoratori sono più avanti di chi li rappresenta». Una curiosità del tutto personale: ma perché non è entrato in politica? Il gruppo della rivista Polena aveva calcolato che se si fosse presentato da solo avrebbe potuto raccogliere oltre il 12% dei consensi. «Ho sempre pensato che se l’avessi fatto sarebbero state male interpretate le mie scelte precedenti come presidente di Confindustria. Come se tutto il mio lavoro fino ad allora fosse stato condizionato da quel progetto». Non ci saranno sorprese presto o tardi? «Faccio il mio mestiere e continuerò a fare il mio mestiere. Non sono fra coloro che pensano che l’unica strada per dare un contributo al bene del Paese sia scendere in politica». Luca Ricolfi