Rocco Moliterni, La Stampa 21/10/2008, 21 ottobre 2008
ROCCO MOLITERNI
NEW YORK
«La fotografia mi scorre nelle vene come il sangue. Mi tiene vivo e mi fa lavorare come un matto», così Gianni Berengo Gardin, spiegava qualche anno fa il suo mestiere. Quel mestiere («Io non mi considero un artista, ma un artigiano» ama ripetere) che l’ha portato ieri a ricevere al Lincoln Center di New York il «Lucie Awards» alla carriera, uno dei più importanti riconoscimenti nell’ambito della fotografia. In passato il premio è stato attribuito tra gli altri a Henri Cartier Bresson, William Klein, Elliott Erwitt.
Nato a Santa Margherita Ligure 78 anni fa, Gianni Berengo Gardin scattò le sue prime immagini a Venezia negli Anni 50, frequentando il celebre circolo fotoamatoriale la Gondola. All’epoca entrò anche in contatto con l’americano Cornel Capa («da lui capii che la fotografia non era solo bei tramonti o bei vecchietti come si pensava allora in Italia»). L’occhio rigorosamente in bianco e nero di Berengo Gardin ha accompagnato mezzo secolo di mutamenti nel nostro Paese. Celebri nel ”68 i suoi reportage sugli istituti psichiatrici, ma anche negli Anni 70 le serie dedicate alle case degli italiani, ormai affollate di televisori ed elettrodomestici. Grande la sua capacità di ritrattista (da Renzo Piano a Borges, da Sottsass a Nanni Moretti).
Nella sua lunga carriera ha collaborato tra l’altro con il Mondo di Pannunzio e con Adriano Olivetti («Fu un’esperienza importante: incominciai a fotografare il mondo del lavoro e le mie idee cambiarono). Numerosi i suoi reportage in giro per il mondo, dalla Spagna delle corride, alla Parigi dei ragazzi che si baciano sulle panchine («Nel mio archivio - ha calcolato una volta - ho più di un milione di negativi»). Con il suo consueto understatement alla notizia del premio ha commentato «Non so, forse gli americani si sono sbagliati».
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