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 2008  ottobre 23 Giovedì calendario

Non siamo mica l’Islanda», ripetono gli ungheresi. Ma dopo la drammatica giornata di ieri alcuni cominciano a dubitare

Non siamo mica l’Islanda», ripetono gli ungheresi. Ma dopo la drammatica giornata di ieri alcuni cominciano a dubitare. A sorpresa, la Banca centrale magiara ha alzato il tasso di sconto di 300 punti, portandolo all’11,50% nel disperato tentativo di salvare il fiorino dal collasso. La valuta nazionale, nel mirino della speculazione, ha sfondato il muro dei 280 nei confronti dell’euro, quando un mese fa ne servivano 240. L’ultima asta dei Buoni del tesoro è andata deserta, come a dire che nessuno si fida più di Budapest, sull’orlo della bancarotta. Certo, l’Ungheria non è come Reykjavik. Ma se «fallisse» sarebbe anche peggio perché la sua economia, le sue banche, i suoi mercati sono strettamente collegati con il resto dell’Europa, Italia compresa. Mentre András Simor, governatore della Banca Centrale, andava in tv per rassicurare, appunto, che «L’Ungheria e l’Islanda sono simili nel senso che sono entrambi piccoli Paesi, ma a parte questo non ci sono altre somiglianze», migliaia di cittadini ungheresi seguono con la pelle d’oca il crollo della borsa. «Avere un’abitazione privata ai tempi del socialismo reale era il sogno proibito dei miei genitori - dice Zsuzsa Kopács, 37 anni, manager -. Io me la sono acquistata ma ora rischio di perdere tutto. Non riesco più a pagare le rate, mi tagliano stipendio e incentivi. Tanti giovani come me vedono d’un tratto svanire il miraggio del benessere». Per evitare che la malattia del fiorino diventi epidemia dell’economia reale ieri, il governo di centrosinistra, è intervenuto proprio sul fronte dei mutui, firmando un accordo con le banche per tutelare i cittadini nel panico. I clienti potranno allungare la durata dei mutui a un tasso fisso per arginare il crollo del fiorino e il balzo dei tassi. E chi si trova in difficoltà, o senza lavoro, può temporaneamente saltare le rate. Il premier Gyurcsány, uomo ricchissimo nonostante la fede di sinistra, ha appena perso la maggioranza in Parlamento. Ma cerca alleanze bipartisan per superare l’emergenza. Sabato scorso ha convocato un vertice nazionale straordinario invitando opposizione, sindacati, industriali, banchieri, economisti. Praticamente tutti, sessantasei cervelli riuniti nella bellissima Accademia delle Scienze in riva al Danubio. L’obiettivo era rassicurare i mercati e scoraggiare gli speculatori che stanno sparando sul fiorino come se fosse la croce rossa. Ma è finita male. Dopo sei ore di discussione, il miraggio dell’unità nazionale è svanito. Viktor Orbán, leader dell’opposizione ha detto: «Lo Stato è al limite della bancarotta e tutta la colpa è di Gyurcsány. La soluzione migliore è un nuovo premier con elezioni anticipate». Il settimanale «Hvg» ha commentato, giustamente: «Il vertice doveva mostrare l’unità nazionale in un momento difficile e invece ha fatto vedere solo contrasti, è un invito agli speculatori: attaccateci pure». Per scongiurare crisi di liquidità la Bce ha messo a disposizione dei fratelli ungheresi 5 miliardi di euro, per dimostrare, come dice Gyurcsány «che Budapest ha alleati potenti». Intanto le banche crollano in borsa come castelli di carte. Otp, il primo istituto commerciale, ha dimezzato il valore in pochi giorni. Un’analisi sottolinea che tra i Paesi della Nuova Europa, l’Ungheria con i tre Baltici, è quello con il sistema bancario meno stabile. L’85% dei depositi sono controllati da banche estere. Tedesche, austriache e italiane. Intesa-San Paolo, per esempio, controlla Cib Bank (la seconda del Paese) e Unicredit UniCredit Bank (settima). I rischi per noi, garantiscono i due colossi italiani, sono minimi, i bilanci addirittura in nero, ma se la crisi si acuisse potrebbe essere una gatta (seppure magiara) da pelare in più. Quando uscì dal socialismo, con una delle rivoluzioni più vellutate dell’Est, l’Ungheria sembrava la più favorita ad avvicinarsi rapidamente ai parametri dell’Occidente. Antica tradizione industriale, ottimo livello di istruzione, buona qualità della vita. Ma gli alti tassi di crescita economica arrivati con la democrazia non si sono tradotti in ricchezza diffusa. I sogni di lusso della nuova borghesia sono stati erosi dall’alta inflazione. Dopo tre anni di austerità per diminuire il debito pubblico (nel 2006 il deficit era al 9% del Pil; ora è sceso a circa il 3%), il governo di centrosinistra aveva finalmente annunciato di abbassare le tasse, per aumentare benessere e consumi. Ma con i tempi che corrono ha dovuto fare marcia indietro. «Avremo bisogno di programmare per il prossimo anno un budget improntato a estrema cautela e modestia», ha spiegato Gyurcsány, congelando, come buon esempio, gli stipendi dei ministri. Non solo tasse ferme e salate, ma addirittura meno spesa sociale, finora considerata un principio intoccabile. Il ministro delle Finanze János Veres taglia un miliardo di euro alle spese pubbliche. E’ un passo verso i parametri di Maastricht, ma anche una cura dolorosa per i più deboli. Quel milione e più di sottoproletari e disoccupati, che non sono mai riusciti a riciclarsi dopo la fine dell’industria di Stato che garantiva un posto a tutti, rischiano di diventare ancora più poveri. Saranno di nuovo loro, come quando sono cadute le stelle rosse, a pagare il prezzo della crisi globale, a essere immiseriti nelle pensioni, nella sanità, nella scuola. La stessa giovane società civile rischia d’appestarsi. Forse non è un caso che tornino slogan di ultradestra, che sboccino rigurgiti antisemiti, che nella puszta sperduta i proletari con le teste rasate facciano a botte con i rom, nel nome della corona di Santo Stefano. Persino la rinomata industria dell’hard rischia grosso. Chi conosce l’italiano scherza col gioco di parole: «Anche il porno andrà in crisi perché alle attrici crollano le borse sotto gli occhi». Come ai tempi del comunismo, come ai tempi delle tante catastrofi vissute da questa piccola, meravigliosa nazione, il «vicc», la barzelletta, resta l’unica arma per difendersi. Ma è una garanzia, come l’acqua del Danubio.