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 2008  ottobre 22 Mercoledì calendario

Baudelaire proponeva alla madre Caroline incontri clandestini al Louvre: «Non c’è posto a Parigi dove si possa chiacchierare meglio; è riscaldato, si può rimanere in attesa senza annoiarsi, e d’altra parte per una donna è il luogo d’incontro più decente»

Baudelaire proponeva alla madre Caroline incontri clandestini al Louvre: «Non c’è posto a Parigi dove si possa chiacchierare meglio; è riscaldato, si può rimanere in attesa senza annoiarsi, e d’altra parte per una donna è il luogo d’incontro più decente». La paura del freddo, il terrore della noia, la madre trattata come un’amante, la clandestinità e la decenza congiunte nel luogo dell’arte: soltanto Baudelaire poteva combinare questi elementi quasi senza accorgersene, con piena naturalezza. Era un invito irresistibile, che si estende a chiunque lo legga. E chiunque potrà rispondergli vagando in Baudelaire come in uno dei Salons di cui ha scritto – o anche in una Esposizione Universale. Trovandovi di tutto, il memorabile e l’effimero, il sublime e la paccottiglia; e passando continuamente da una sala all’altra. Ma se allora il fluido unificante era l’impura aria del tempo, ora lo sarà una nube oppiacea, in cui nascondersi e corroborarsi prima di tornare all’aperto, nelle vaste distese, letali e pullulanti, del secolo ventunesimo. «Tutto ciò che non è immediato è nullo» (Cioran, una volta, parlando). Pur non facendo alcuna concessione al culto dell’espressione brada, Baudelaire ha avuto come rari altri il dono dell’immediatezza, la capacità di lasciar filtrare parole che subito scorrono nella circolazione mentale di chi le incontra e vi rimangono, talvolta allo stato latente, finché un giorno tornano a risuonare intatte, dolorose e incantate. «A bassa voce, ora conversa con ciascuno di noi» scrisse Gide nella sua introduzione alle Fleurs du mal del 1917. Frase che deve aver colpito Benjamin, se la troviamo isolata nei materiali per il libro sui passages. C’è qualcosa in Baudelaire (come poi in Nietzsche) di così intimo da annidarsi in quella foresta che è la psiche di chiunque, senza più uscirne. una voce «smorzata come il rumore delle carrozze nella notte dei boudoirs ovattati», dice Barrès, ricalcando le parole di un occulto suggeritore che è Baudelaire stesso: «Non si sente altro che il rumore di qualche fiacre attardato e sfibrato». un tono che sorprende «come una parola detta in un orecchio in un momento in cui non la si aspettava», secondo Rivière. Negli anni intorno alla prima guerra mondiale quella parola sembrava essere diventata un ospite indispensabile. Rintoccava in un cervello febbricitante, mentre Proust scriveva il suo saggio su Baudelaire inanellando citazioni a memoria come fossero filastrocche infantili. Per chi è avvolto e quasi intormentito dalla desolazione e dalla spossatezza, è difficile trovare di meglio che aprire una pagina di Baudelaire. Prosa, poesia, poemetti in prosa, lettere, frammenti: tutto va bene. Ma, se possibile, prosa. E, nella prosa, quella sui pittori. Talvolta su pittori oggi ignoti, dei quali ormai si conoscono soltanto il nome e le poche parole che Baudelaire gli ha dedicato. Lo osserviamo nella sua flânerie, mescolato a una folla sciamante – e abbiamo l’impressione che un nuovo sistema nervoso si stia sovrapponendo al nostro e lo sottoponga a frequenti, minime scosse e trafitture. Così un sensorio torpido e arido viene costretto a risvegliarsi. C’è un’onda Baudelaire che attraversa tutto. Ha origine prima di lui e si propaga di là da ogni ostacolo. Fra i picchi e i cavi di quell’onda si riconoscono Chateaubriand, Stendhal, Ingres, Delacroix, Sainte-Beuve, Nietzsche, Flaubert, Manet, Degas, Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé, Laforgue, Proust e altri, come se da quell’onda fossero investiti e per qualche momento sommersi. O come se fossero loro a urtare l’onda. Spinte che si incrociano, divergono, si diramano. Risucchi, gorghi improvvisi. Poi il corso riprende. L’onda continua a viaggiare, punta sempre verso il «fondo dell’Ignoto» da cui proveniva. Sentimento di gratitudine e di esultanza, quando si leggono queste righe di Baudelaire su Millet: «Lo stile gli porta male. I suoi contadini sono dei pedanti che hanno un’opinione troppo alta di se stessi. Esibiscono una specie di abbrutimento tetro e fatale che mi fa venire voglia di odiarli. Che si dedichino al raccolto o alla semina, che pascolino le mucche o tosino gli animali, hanno sempre l’aria di dire: "Però siamo noi, poveri diseredati di questo mondo, a fecondarlo! Noi compiamo una missione, esercitiamo un sacerdozio!"». Il pubblico circolava nei Salons provvisto di un libretto che indicava il soggetto dei singoli quadri. Giudicare un quadro consisteva nel valutare l’adeguatezza della rappresentazione visiva all’argomento illustrato. Che generalmente era storico (o mitologico). Per il resto paesaggi, ritratti o quadri di genere. Il nudo si insinuava sfruttando qualsiasi opportunità offerta da episodi mitologici o storici o biblici (così la Esther di Chassériau, archetipo regale di ogni pin-up). O altrimenti era protetto dall’etichetta del genere orientalista. Baudelaire osservò un giorno due soldati che visitavano il Salon. Erano in «contemplazione perplessa davanti a un interno di cucina: "Ma allora dov’è Napoleone?" diceva uno (il catalogo si era sbagliato di numero, e la cucina era contrassegnata dalla cifra che corrispondeva legittimamente a una battaglia celebre). "Imbecille!" disse l’altro "non vedi che preparano la minestra per il suo ritorno?". E se ne andarono contenti del pittore e contenti di se stessi». Nel momento in cui appare la fotografia – e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto ”, già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi. «Questo peccato è il nostro peccato... Mai occhio fu più avido del nostro » precisò Gautier. E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «giovanissimi, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi, e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che io diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell’immensità», traboccanti di simulacri. L’avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d’arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche». Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d’amore in sogno», più che una guerra. Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un’opera di trasposizione da un registro all’altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, e lasciano dimenticare presto che potevano anche essere la descrizione di un acquerello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d’ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano con pigrizia al vento della passeggiata». Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)». Quando Baudelaire entrò nel paesaggio della poesia francese, i punti cardinali si chiamavano Hugo, Lamartine, Musset, Vigny. Ogni posizione poteva essere definita in rapporto a loro. Ovunque si guardasse, lo spazio era già occupato, osservò SainteBeuve. Ma soltanto in orizzontale. Baudelaire scelse la verticalità. Occorreva immettere nella lingua una stilla di metafisica, che sino allora mancava. E Baudelaire la secerneva in sé, ben prima di incontrare Poe e Joseph de Maistre, che gli insegnarono a pensare, per suo riconoscimento. Come John Donne, Baudelaire era un poeta naturalmente metafisico. Non già perché frequentasse molto i filosofi (nel complesso li ignorava). Né perché fosse incline a costruire audaci speculazioni, se non per sprazzi e accessi, che si bruciavano in poche righe, per lo più in scritti con destinazione giornalistica. Baudelaire aveva qualcosa di cui erano sprovvisti i suoi contemporanei parigini – e che mancava persino a Chateaubriand: l’antenna metafisica. Quando Nietzsche scriveva che Baudelaire era «già totalmente tedesco, a parte una certa morbosità ipererotica, che sa di Parigi », intendeva questo. Gli altri, intorno a lui, potevano anche avere prodigiose doti inventive, come Hugo. Baudelaire aveva la capacità folgorante di percepire ciò che è. Come John Donne, di qualsiasi cosa scrivesse, faceva risuonare nel suo verso, nella sua prosa, una vibrazione che invadeva ogni angolo – e presto spariva. Preliminare a ogni pensiero, metafisica è in Baudelaire la sensazione, la pura apprensione dell’istante, la congenita inclinazione a sorprendersi in certe occasioni in cui la vita, come srotolando un lungo tappeto, rivela la profondità indefinita dei suoi piani. E questo può anche aiutare a spiegare l’intatta potenza totemica di Baudelaire di fronte a ciò che appare, che è nuovo, che sfugge. Centocinquant’anni non sono bastati per attenuare quel potere. E nessun altro scrittore del tempo è ancora in grado di esercitarlo. un fatto che non riguarda la potenza o la perfezione della forma. Riguarda la sensibilità. Nel senso preciso che Baudelaire dava alla parola («Non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità di ciascuno è il suo genio»). Una volta sfilata quella camicia di forza che è qualsiasi sistema, che cosa sarebbe accaduto? Baudelaire lo descrisse partendo dall’ironia e approdando alla massima gravità: «Condannato di continuo all’umiliazione di una nuova conversione, ho preso una grande decisione. Per sfuggire all’orrore di queste apostasie filosofiche, mi sono orgogliosamente rassegnato alla modestia: mi sono accontentato di sentire; sono tornato a cercare un asilo nell’impeccabile ingenuità». Rare volte Baudelaire aveva rivelato altrettanto di sé. «Mi sono accontentato di sentire»: potrebbe essere il suo motto – e anche la spiegazione di quel senso di indubitabilità che spesso promana dalle sue parole. © Roberto Calasso Charles Baudelaire in una fotografia di Nadar (pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon, 1820-1910). Il poeta nacque a Parigi nel 1821 e morì nel 1867. Per «Les fleurs du mal» fu processato insieme all’editore Poulet-Malassis con l’accusa di pubblicazione oscena.