Giorgio Dell’Arti Massimo Parrini, Catalogo dei Viventi 2009, Marsilio 2008, 22 ottobre 2008
VARACALLI Rocco
VARACALLI Rocco Natile di Careri (Reggio Calabria) 1 giugno 1970. ‛Ndranghetista pentito, a suo tempo affiliato alla cosca Rua-Pipicella (col grado di sgarrista finalizzato), ”attivato” a Torino. Sposato, con figli. Detenuto, condannato in primo grado il 29 febbraio 2008 a 20 anni di reclusione per omicidio • «Arrivai a Torino all’età di 15 anni per lavorare nell’impresa edile di mio zio. Non venivo pagato. Sua moglie mi cuciva un assegno nella tasca interna dei pantaloni che mia madre provvedeva a scucire e incassare quando scendevo giù in Calabria. Cominciai a spacciare droga con Giuseppe Amadeo. Era un amico di mio padre, trasportava arance dalla Calabria. Per la prima custodia di droga mi consegnò 1.500.000 lire». Fu ’battezzato” (cioè affiliato alla ‛Ndrangheta) a Natile di Careri, e ”attivato” a Torino. Per essere ”attivato”, si presentò al caposocietà del distaccamento torinese del loro ”locale” (cioè gruppo di famiglie ‛ndranghetiste che provengono dallo stesso territorio, vedi anche CARELLI Santo), e gli portò i saluti del caposocietà di Natile. Si pentì il 3 novembre 2006, di fronte al pm Roberto Sparagna di Torino: «Ho effettuato questa scelta in quanto ho deciso di cambiare vita, dopo 18 anni trascorsi nell’illegalità, ho cagionato enormi dispiaceri ai miei familiari. Non voglio più avere a che fare con i criminali». Siccome, oltre a spiegare chi erano gli ‛ndranghetisti a Torino, rivelò quello che sapeva della ‛ndrangheta nella Locride, il pm trasmise gli atti a Reggio Calabria, dove il 21 aprile 2008 furono depositati nell’ambito del procedimento ”Stupor Mundi” e, quindi, pubblicati sui giornali. La famiglia residente in Calabria senza perdere tempo si affrettò a rinnegarlo in una lettera ai giornali medesimi: «Non siamo più la sua famiglia. Non è degno, come non lo è mai stato, di dire che fa parte di una famiglia unita, pulita e onesta come la nostra. Nessun giudizio potrà mai definirlo, non abbiamo parole davanti a un elemento del genere e francamente non merita parole». Un fratello, Mimmo, si vestì subito a lutto (glielo disse la moglie, che a sua volta era venuta a saperlo da un avvocato calabrese incrociato nei corridoi del Tribunale di Torino), mentre la sua figlioletta, rispondendo al telefono, fu incaricata dai parenti di giù di dirgli che il 2 dicembre avrebbero detto la messa per lui e che si sarebbero vestiti tutti di nero (e la figlioletta, andando a colloquio con lui, in carcere, nel riferirglielo, gli chiese che cosa voleva dire) • Ciò che più colpì fu sentirlo raccontare che a Torino, città sabauda, ora si faceva tale e quale come in Calabria. Anche a Torino, prima di riunirsi in un luogo, gli ‛ndranghetisti lo ”battezzavano”: «Intendo dire che all’interno del locale i componenti della società, dopo un rito che consiste nel recitare una canzone, si possono riunire poiché il posto è a disposizione dell’onorata società. In pratica è come se il luogo fosse benedetto da un sacerdote». Per ogni rito una canzone (quando lui ricevette il ”fiore”, cioè fu promosso a sgarrista finalizzato, la strofa, recitata dal caposocietà e poi ripetuta dal contabile, fu: «Ci vogliono 99 picciotti per metterlo fuori società ») (Raphaël Zanotti, La Stampa 21/5/08) • Quando uscì la notizia del suo pentimento sulla Stampa, un ex assessore di Moncalieri (comune al confine con Torino), Beppe Arruffo, di Rifondazione, raccontò di essersene andato dalla giunta perché ormai non era più possibile cambiare la città: «Posso dire con certezza che c’è una sorta di voto etnico a favore dei calabresi. Qualsiasi cosa succeda, qualsiasi situazione politica si crei, sia a livello nazionale che locale loro prendono gli stessi voti [...] Alle ultime elezioni un consigliere calabrese di maggioranza mi disse: io ho 208 voti. E me lo disse il giorno prima dello scrutinio. Lì per lì non ci feci nemmeno caso. Quarantotto ore dopo vidi che ne aveva presi 207, perché intanto uno dei suoi elettori, evidentemente anziano, era deceduto » (intervistato da Giuseppe Legato, La Stampa 22 maggio 2008) • Le sue rivelazioni consentirono di notificare in carcere l’ennesima ordinanza di custodia cautelare a Domenico Màrando (fratello del mammasantissima di Volpiano, nella cintura torinese, ma sparito nel nulla in quel di Platì, Reggio Calabria, vittima di lupara bianca, come si dice da quelle parti), e al di lui cognato, Antonio Spagnolo, boss di Ciminà (Reggio Calabria), col grado di santista (ma anche impiegato statale al corpo della Forestale). Al primo come mandante, al secondo come killer, per delitti commessi all’interno di una faida consumata interamente in Piemonte e riguardante le famiglie Màrando-Romeo- Stefanelli-Leuzzi-Mancuso-Maracando. [Paola Bellone]