Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  ottobre 21 Martedì calendario

la Repubblica, martedì 21 ottobre Da qualche giorno è aperta, alle Scuderie del Quirinale di Roma, una mostra di Giovanni Bellini

la Repubblica, martedì 21 ottobre Da qualche giorno è aperta, alle Scuderie del Quirinale di Roma, una mostra di Giovanni Bellini. Tutto è bello: i 62 meravigliosi quadri, che comprendono alcuni capolavori ricostituiti, come la Pala di Pesaro, e molte opere sconosciute, che vengono dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall´Inghilterra, da collezioni pubbliche e private: la scenografia e l´illuminazione, studiate con raro talento: il catalogo, a cura di Mauro Lucco e Giovanni Carlo Villa (Silvana editrice, pagg. 384, euro 35), con una preziosa appendice, curata da Manuela Barausse, di documenti in parte inediti. La mostra è aperta fino all´11 gennaio 2009; e attirerà moltissimi visitatori, giacché Giovanni Bellini è sia, come si dice, «pittore per pittori», sia un artista che parla a tutti, anche alle persone più semplici, con voce discreta, tenera e affabile. Non sappiamo quando Giovanni Bellini sia nato: se attorno al 1430 o al 1440; sebbene gli studiosi preferiscano oggi la seconda data, credo a ragione. Apparteneva a una famiglia di artisti: il padre Jacopo e il fratello Gentile. Probabilmente era figlio naturale, visto che il padre non lo nomina nel testamento. Mentre il fratello Gentile raggiunse Costantinopoli, invitato dal sultano Mehmet II, Giovanni visse sempre, o quasi sempre, a Venezia, tra Rialto e san Zanipolo: i suoi viaggi sono ipotetici, inventati dai critici per spiegare affinità e influenze. Nel febbraio 1483, venne nominato pittore ufficiale della Repubblica, ed esentato dalle tasse. Ma la sua famiglia si estendeva oltre i canali di Venezia. A Padova, nel 1453, Andrea Mantegna aveva sposato sua sorella Nicolosia: Bellini ne aveva visto i quadri e le stampe, meditandoli a lungo. Se dovessi indicare con un termine il talento di Giovanni Bellini, parlerei di pieghevolezza. Non era una parola di Bellini; e nemmeno mia, ma apparteneva a Giacomo Leopardi, quando voleva indicare il segno di un grande scrittore. Pieghevolezza è il dono di uno scrittore e di un artista, la cui mente ha molte forme: che tenta ipotesi diverse fra loro; ed ha bisogno di subire ogni specie di influenza e di echi per diventare sé stesso. Questo era appunto il caso di Giacomo Leopardi e di Giovanni Bellini. Leopardi scrisse le Memorie del primo amore, il Discorso intorno alla poesia romantica, gli Idilli, le Canzoni, le Operette morali, lo Zibaldone, il Risorgimento, e Le Ricordanze, i cosiddetti Canti fiorentini, la Ginestra: ogni poesia e prosa era un´ipotesi e un tentativo diverso. Giovanni Bellini imitò (se è possibile usare questa parola) Mantegna, i fiamminghi, Antonello da Messina, Giorgione, forse persino Dürer; e, per quanto si trasformasse, rimase sé stesso, obbedendo, avrebbe detto Goethe, alla sua Originalnatur. E´ bello immaginare Andrea Mantegna (nato nel 1430 o 1431) e Giovanni Bellini (nato qualche anno più tardi) l´uno accanto all´altro, come in una coppia di Vite di Plutarco. Il viso bronzeo di Mantegna, nella chiesa di S. Andrea a Mantova, era eroico, fosco, austero, corrucciato, con capelli che scendevano a folte ciocche, e la corona d´alloro sul capo: lo sguardo, che ora è intensissimo, doveva essere sfolgorante nel 1507, quando il marchese Gonzaga fece incastonare due diamanti nelle pupille; e ancora oggi si percepisce la compiacenza con la quale Mantegna modellò questa proiezione di sé. Tiziano dipinse un ritratto di Bellini (probabilmente dopo la sua morte), che avremmo voluto vedere in questa mostra. Giovanni Bellini, ovvero, come diceva Marco Boschini, «la primavera del mondo in atto di pittura», era rappresentato di traverso, con la testa inclinata verso destra: stava invecchiando, mi sembra senza rimpianto: con occhi che guardavano fissi lontano, e insieme qui, l´albero o il cespuglio o il prato o la lepre o Maria o gli angeli che suonavano davanti a lui. Al contrario di Mantegna, non inseguiva nessuna immagine fantastica di sé stesso e della propria pittura. Nei quadri di Mantegna, «l´uomo abita - così si usa dire - un universo di pietra»: con un furore indemoniato Mantegna assale la pietra, la frantuma, la spezza, la scheggia, la trasforma in apostoli o soldati romani: colpisce san Sebastiano con decine di aguzze frecce mortali; e la capigliatura dei suoi eroi, diceva Proust, «ha l´aria insieme di una nidiata di colombe, di una fascia di giacinti e di una treccia di serpenti». Giovanni Bellini fu sempre intimorito e pauroso, fino ai suoi ultimi anni, davanti a quella violenza crudele, che avrebbe potuto sconvolgere il suo regno di riflessi e lontane montagne azzurre. Proprio per questo cercò di imitarla, e di assimilarla. All´improvviso, nei quadri di Bellini, i volti diventarono fragili e freddi come ceramica: il gelo fece rabbrividire il suo mondo: i mantelli ricevettero pieghe innaturali come fossero stati segnati da colpi di frusta: le rocce dei monti assunsero forme scandite, squadrate, spezzate, geometrizzate: le figure furono viste di scorcio; mentre piccoli cherubini rossi indossarono ali rosse attorno al collo invisibile. Ma gli occhi di diamante di Mantegna erano lontani; e a poco a poco, con una accorta diplomazia di piccoli tocchi, Bellini insinuò la dolcezza nel mondo di Mantegna, che aveva sempre ignorato o ucciso la dolcezza. [***] Il primo quadro di Giovanni Bellini è, forse, una Madonna con bambino, conservato al County Museum di Los Angeles. L´abbraccio tra il figlio e la madre è tenerissimo: ma gli occhi di Maria non guardano il bambino, mentre quelli del figlio contemplano il vuoto; come se l´assenza apparente di rapporti fosse la forma più stretta di rapporto. Ciò che colpisce sempre, nelle Madonne di Bellini, è l´intreccio delle mani: Maria stringe con le mani il bambino, il quale gioca, a sua volta, con il pollice della mano destra della madre: lo stesso gioco si ripete tra le mani di Maria piangente, quelle di Maddalena e quelle del Cristo morto; i diversi mondi, terrestre e celeste, si incontrano, fino a non poter venire più sciolti, per mezzo di queste bellissime mani. Tutto attorno ci sono angeli: angeli lieti e sorridenti con rosse o rosee o celesti ali da farfalla, che suonano flauti o lire o mandole, e non si rattristano nemmeno se Cristo muore: in alto, stanno gruppi di piccoli cherubini rossi, senza corpo, e con germogli di ali rosse, attaccate al collo. Talvolta gli angeli vengono degradati a bambini, che nuotano arditamente nelle acque; e forse hanno un rapporto segreto con le moltitudini di lepri e conigli, che brucano lietamente le erbe, corrono tra i cespugli e le colline, e si fiutano a vicenda, come dovessero comunicarsi qualcosa. I temi di Giovanni Bellini sono, quasi sempre, di una semplicità estrema: Maria, il bambino, qualche santo, Cristo sofferente, Cristo morto. Il Compianto su Cristo morto, una grande tela nel Palazzo ducale di Venezia, contiene un´immensa violenza dolorosa: col volto magrissimo del Cristo, gli occhi vuoti, il corpo esile ridotto alle ossa, con gli occhi chiusi e il grido disperato di Maria, e la luce che colpisce tremendamente da destra. Allora, Bellini aveva poco più di trent´anni. Nei decenni successivi, sembra che la tragedia, qui intollerabile, venga accettata: nemmeno i terribili Cristi moribondi o morti di Antonello, che probabilmente Bellini conobbe, lo influenzarono. Nella famosa pala di Brera, Cristo non soffre: altrove, assopito, abita nel luogo sconosciuto dove entriamo dopo la morte: o a metà strada, fermo tra terra e cielo, sopra le lepri e i conigli che scappano, davanti alle strisce di nuvole grigie e rosa. Il paesaggio, che col trascorrere degli anni Bellini amò sempre più intensamente, diminuiva la tragedia della Crocefissione, del sangue e della morte, e qualsiasi tensione drammatica. La luce brillava, scintillava: giungeva contemporaneamente da due parti; riconosciamo la luce dell´alba, quella del mezzogiorno, quella del pomeriggio, quella del tramonto; come se un quadro fosse, in primo luogo, l´eco fedele dei momenti che passano. La luce produce riflessi: gli alberi si riflettono nelle acque del fiume; e, soprattutto, in un punto prodigioso del Battesimo di Cristo a Vicenza, la veste rossa di Cristo, tenuta in mano dalla Fede, si riflette nelle acque del Giordano, e il riflesso del Giordano si riflette, a sua volta, sul perizoma bianco di Cristo battezzato, trasformandosi in un lilla delicatissimo; e non importa se ciò non accada mai in natura, perché Bellini coltivava soltanto la natura trasfigurata. Sullo sfondo del paesaggio, specie nelle opere mature o tarde, si innalzano montagne azzurre; e città composte da edifici che stavano in città diverse: il San Ciriaco di Ancona, il campanile di Santa Fosca in Cannaregio a Venezia: città elette; mai la Gerusalemme celeste, che possiede una iconografia esclusiva. A Venezia, Bellini conosceva benissimo i pittori fiamminghi, molto prima che arrivasse Antonello da Messina: Jan van Eyck, Dirk Bouts, Petrus Christus, Roger Van der Weyden. I suoi paesaggi erano pieni di echi fiamminghi: piante minuziosissime, crepitanti di vitalità come in Van Eyck, delle quali in un solo quadro, sono state riconosciute trenta specie diverse. La mano lasciava la tempera per la pittura ad olio fiamminga: o alternava, secondo le parti del quadro, la tempera e l´olio. Lo spazio si allargava: sembrava che non ci fossero più differenza tra erbe, montagne, case, acque, alberi, nuvole, Maria, e il bambino. Eppure, mentre tutto si avvicinava e fondeva, Bellini alzava una tenda colorata, sempre più vasta, tra Maria, il bambino e il paesaggio, come se non volesse che l´ultima comunione tra divino e natura, si realizzasse compiutamente. Mentre fissava tutto ciò che è molecolare nella natura, Giovanni Bellini veniva ispirato da una grandiosa immaginazione architettonica. Non abbiamo, alle Scuderie del Quirinale, la Pala di san Giobbe, il Trittico dei Frari, la Pala di san Zaccaria: ma la Pala di Pesaro, che è forse la più bella ed è stata ricongiunta all´Imbalsamazione di Cristo dei Musei Vaticani. La cornice con fogliami dorati venne ideata da Bellini: la spalliera di marmo dietro Gesù e la Madonna è stranamente forata, così che si intravede un paesaggio di castelli, boschi e montagne, con un arboscello alto contro il vento: mentre la colomba dello Spirito Santo e i piccoli cherubini rossi, rosei e scuri occupano la parte superiore del cielo; il dipinto non è visto di fronte, ma da qualcuno che sta in basso, ai piedi del quadro, e guarda in alto, verso il Cristo assopito, che porge la mano sinistra alle mani della Maddalena. Quale respiro, quale spazio, quale riposo. Niente, nemmeno i cavalli e le crocifissioni delle predelle, disturba la quiete. Oltre alla grandezza, Bellini amava la frivolezza: come nelle piccole allegorie disposte nel restelo, un mobile della toilette; non disdegnava niente, e dipingeva con lo stesso piacere erbe, lepri, angeli, bambini, allegorie, decorazioni, Madonne, mantelli, riflessi. Quando entrò nel sedicesimo secolo, nel quale visse ancora sedici anni, dipingendo «per excellentia», Bellini semplificò la propria tecnica. Ora, dipingeva sopratutto ad olio, e lavorava anche col palmo e i polpastrelli, così da alleggerire i tocchi del pennello, e impegnare tutto il corpo nell´amata fatica. Non smise di essere pieghevole: subì l´influenza di Giorgione, che era stato suo allievo, e che influenzava a sua volta. [* * *] Nel febbraio 1490, lasciando la corte di Ferrara, Isabella d´Este entrò nel palazzo ducale di Mantova, come sposa di Francesco Gonzaga. Aveva sedici anni, e sapeva a memoria le Bucoliche di Virgilio. Era intelligente, colta, ambiziosa, altera, arrogante: amava la letteratura e la pittura; e coltivava l´amicizia dei più famosi poeti ed artisti della sua epoca, specialmente quella di Pietro Bembo. Cantava benissimo. Quando muoveva le belle labbra nel canto - diceva Giangiorgio Trissino - , dal cielo scendeva una tale dolcezza che «l´aria si rallegrava e il vento si arrestava per ascoltarla». Nel 1498 le vennero assegnate le stanze con la Camera degli Sposi: ma Isabella amava soprattutto lo studiolo di sua invenzione, dove Mantegna dispose, uno di fronte all´altro, il Parnaso e il Trionfo della virtù. Qualche anno dopo, nel 1501, Isabella chiese a Giovanni Bellini di dipingere per il suo studiolo «qualche Historia o una Fabula antiqua». Gentilissimo ma inflessibile coi committenti, Bellini prese tempo: non aveva voglia di dipingere una pittura allegorica: «non era omo per fare istorie»; e sopratutto non voleva che il suo quadro fosse messo «a paragone» con le allegorie del Mantegna, che gli incuteva ancora timore e reverenza. Poi decise di fare un Presepio: nell´ottobre 1503 disse che lo avrebbe consegnato in un mese e mezzo: mentì perché nel gennaio 1504 pretese un altro mese e mezzo, affermando che d´inverno i colori si asciugavano lentamente; Isabella gli avrebbe consegnato 50 ducati invece dei 100 promessi, perché una Madonna col bambino valeva la metà di una storia allegorica. Il 16 luglio 1504 il quadro era finito. Giovanni si scusò: sperava che Isabella fosse rimasta contenta del quadro, ma se non era soddisfatta, doveva attribuire la colpa «a la tenuità del saper mio»; Lorenzo da Padova aggiungeva che il quadro era bello, ma non possedeva l´invenzione meravigliosa di Andrea Mantegna. «Ben è vero che de inventione non se po´ andare apreso di Andrea eccellentissimo». Isabella non era sazia. Lo studiolo, che avrebbe dovuto rivaleggiare e superare quello, a Urbino, di Federico da Monfeltro, aveva ancora lacune. Il 18 ottobre 1505 Isabella scrisse al Bellini che il Presepio era bello, ma lei non l´aveva messo nello studiolo: ora voleva avere, al più presto, «un quadro dipincto ad Historia da mettere nel nostro studio presso quelli del Mantegna vostro cognato»; e chiese a Pietro Bembo di inventarne il tema e le figure. Bembo rispose con prudenza che l´«invenzione» andava lasciata al Bellini, perché egli non tollerava di dipingere entro «signato termine», ma preferiva «sempre vagare a sua voglia nella pittura»: espressione bellissima. Poi la corrispondenza fra Isabella e Giovanni Bellini si interruppe, non so per quale ragione. Qualche anno dopo, Bellini dipinse una grande «Fabula antiqua», il Festino degli dei, ora a Washington: non per Isabella ma per Alfonso I d´Este, che lo destinò al suo camerino d´alabastro nel Castello Estense. Intanto a Venezia era giunto alla fine del 1505 (forse per la seconda volta), il più grande pittore dell´epoca: Albrecht Dürer, che a trentaquattro anni aveva già dipinto capolavori: due autoritratti, il ritratto del padre, l´Adorazione dei magi, I Quattro cavalieri dell´Apocalisse, acquarelli con rocce, iris, Trento. Adorava soprattutto il Mantegna, che in quei mesi stava morendo a Mantova e che egli non riuscì a vedere. Come scrisse in una lettera famosa, viveva volentieri a Venezia: «Vorrei foste qui a Venezia. Ci sono tanti compagni gentili tra gli italiani, che sempre più si accompagnano a me, cosa che ad uno, poi, dovrebbe intenerire il cuore: studiosi, intelligenti, buoni suonatori di liuto, flautisti, intenditori di pittura, e molte menti nobili, gente di vera virtù e mi dimostrano molto amore ed amicizia». Avvolto dai quei suoni di flauto e di liuto, Dürer dipinse in cinque mesi la grande pala della Festa del Rosario, e Cristo fra i dottori, Un giovane e una veneziana. Un giorno conobbe Giovanni Bellini, che lo lodò «davanti a molti gentiluomini». Dürer visitò il suo studio, dove scorse un angelo musicante, che trasferì in parte nella sua Festa del Rosario. Bellini ricambiò la visita: ammirò i quadri di Dürer; e lo pregò di dipingerne uno per lui; «lo avrebbe ben pagato». Poi - se l´aneddoto narrato dal Cammerarius è vero - gli chiese di prestargli o di regalargli uno dei suoi pennelli, perché Dürer dipingeva le capigliature fuse e compatte come a lui non riusciva. Allora Dürer gli mostrò il suo pennello: era normalissimo. Non so se Bellini abbia imitato anche Dürer, come sostiene Vasari. Senza stancarsi mai, senza un attimo di dubbio o di interruzione, Giovanni Bellini continuò a dipingere sino alla fine. Era vecchio: aveva non sappiamo se settantasei o ottantasei anni. Pochi mesi prima della morte si fece prestare per due giorni, dai domenicani del Convento di san Giovanni e Paolo, una corona d´argento, che voleva imitare in un quadro. Morì il 29 novembre 1516: probabilmente senza dolore e rimpianto, come capita a tutti gli uomini, artisti o contadini o vagabondi, che compiono sino in fondo il lieve destino che qualcuno ha affidato loro. Pietro Citati