Sergio Bocconi, Corriere della Sera 21/10/2008, pagina 3, 21 ottobre 2008
Corriere della Sera, martedì 21 ottobre MILANO – Ha voluto proprio dirlo, forse perché l’occasione era proprio adatta e soprattutto perché l’interrogativo si «aggira» sui mercati (e non solo) da quando sono stati decisi i provvedimenti anti crisi
Corriere della Sera, martedì 21 ottobre MILANO – Ha voluto proprio dirlo, forse perché l’occasione era proprio adatta e soprattutto perché l’interrogativo si «aggira» sui mercati (e non solo) da quando sono stati decisi i provvedimenti anti crisi. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti lo dice un po’ a modo suo, quasi a freddo e senza usare mezzi termini: «Solo un demente può pensare che l’ingresso nelle banche sia un lucido e luciferino esercizio di dominio politico». L’occasione è la presentazione del libro di Lorenzo Bini Smaghi, componente l’esecutivo della Bce, «Il paradosso dell’Euro», organizzata dalla Fondazione Corriere della Sera. Un dibattito che ha visto Tremonti dialogare con l’economista ed ex commissario alla Concorrenza Ue Mario Monti e Bini Smaghi sull’euro, ma soprattutto sull’attuale crisi finanziaria mondiale. Sollecitati dal moderatore Dario Di Vico, vicedirettore del Corriere, e dalle domande provenienti dal parterre qualificato (c’erano fra gli altri i presidenti di Telecom Gabriele Galateri, di Mediobanca Cesare Geronzi, di Pirelli Marco Tronchetti Provera e l’amministratore delegato di Italcementi Carlo Pesenti), e in particolare da Cesare Romiti, l’economista dell’Università Bocconi Fabrizio Onida e Paolo Panerai, editore di Milano Finanza. POLITICA E BANCHE La crisi ha obbligato America ed Europa a ritornare al keynesismo e a recuperare l’intervento pubblico diretto nelle imprese, per il momento solo bancarie, rimettendo dunque in discussione modelli e principi, liberismo e privatizzazioni. Temi entrati con forza nel dibattito, mostrando punti di convergenza ma anche differenze (peraltro note) fra i protagonisti. Così Tremonti interviene su banche e politica perché è chiara la preoccupazione generale, tanto più in un Paese che ha un lungo passato di banche pubbliche e con governance partitica. Sottolinea dunque: «La politica non ha alcun interesse a entrare nelle banche, l’ingresso negli istituti di credito nuoce gravemente alla salute della politica. Può essere una necessità ma non è assolutamente un’opportunità». E su cosa intenda per necessità chiarisce subito che allo Stato non interessa «salvare i banchieri, bensì unicamente risparmiatori e aziende. La prima reazione dei cittadini quando si mette denaro pubblico in una banca è: allora metti questi fondi nella mia impresa, e non hanno tutti i torti». Oppure si arriva a chiedere che le banche «dovrebbero ridurre i mutui dei cittadini» e in questo caso «si replicherebbe una storia colossale come quella di Alitalia ». Il governo agisce perciò «se c’è un rischio relativo ai risparmiatori o al flusso di finanziamenti verso le imprese. Altrimenti no». Per i risparmiatori «abbiamo già chiarito che non esistono rischi, il problema più importante è il canale di finanziamenti verso le aziende. Se resta aperto, non c’è bisogno di intervento». Perché questo è un punto sottolineato da tutti: oggi il tema prioritario è capire quanto e come la crisi finanziaria si trasferirà sull’economia reale e potrà di conseguenza frenare o bloccare la crescita. L’allarme, Tremonti lo fa capire benissimo, è alto, e le misure se necessarie dovranno scattare. Ma, assicura, in ogni caso l’Italia «non farà cose diverse da quelle che fanno negli altri Paesi europei e finora ci siamo mossi in linea con lo standard europeo». IL TRATTATO E GLI AIUTI Ma misure, interventi, sostegni pubblici, non erano fino a prima della crisi dei subprime americani vietate di norma, di fatto o per coerenza di pensiero? Più in generale, sul rapporto fra Stato e mercato, fra risorse pubbliche e (come oggi) «perdite» private, secondo Tremonti «va aperta una discussione non dominata da pregiudizi». E, di più: « forse arrivato il momento di un disarmo culturale reciproco. Di una riflessione sulle soluzioni empiriche, caso per caso, senza opporre pregiudiziali negative». Monti ricorda comunque che l’Europa non ha mai vietato in blocco gli aiuti di Stato, «invece consentiti ma con discipline specifiche». L’economista sottolinea dunque le linee guida dettate in tal senso dalla Commissione nel 2004 e soprattutto l’articolo 86 del Trattato di Roma, quello costitutivo della comunità europea, che «apre le porte agli aiuti per fronteggiare crisi gravi». Aiuti autorizzati in passato nel caso della Grecia, ma «oggi c’è una situazione nuova», sistemica, e l’Europa ha adottato procedure accelerate proprio facendo riferimento al Trattato e alle linee guida. CAPITALISMO E MODELLI Nel dibattito fra i modelli, l’Europa comunque è oggi considerata «vincente». Monti sottolinea che «la nostra governance dell’economia di mercato e della moneta» non è seconda a quella Usa, e anzi negli Stati Uniti è considerata «quasi un modello». Ricorda l’ammirazione di alcuni governi europei per il «decisionismo texano di George Bush, rispetto al lento esercizio di integrazione europea», e aggiunge: «Non so chi abbia avuto ragione». L’euro si è dimostrato «stabile, protettivo e punto di riferimento» anche per chi non è o non è ancora sotto questo «scudo». Aggiunge Bini Smaghi: «Se gli Stati possono indebitarsi a trent’anni al 4% è dovuto alla politica monetaria della Banca centrale europea. Politica attenta e prudente e continuerà a essere così, anche se teniamo conto dei dati ogni mese, non viviamo sulla Luna». Monti riporta quindi recenti articoli della stampa americana ( Time e New York Times) che, fatto non certo consueto, non lesinano elogi al nostro continente e in particolare alla leadership della presidenza francese e del premier di Parigi Nicolas Sarkozy. E cita come nuovo «paradosso» dell’euro proprio la crescente ammirazione da parte anche dei Paesi che ancora non fanno parte del sistema monetario comune o che non hanno voluto entrare. Riporta riflessioni note, come quelle in Svezia e Danimarca, e anche alcune, raccolte personalmente, che riguardano la Gran Bretagna. IL DESTINO DELL’ITALIA Tremonti, che ripete anche in questa occasione di non essere mai stato «euroscettico», riprende il tema dei modelli e vuole sottolineare che proprio dal cataclisma finanziario potranno essere «significativamente ridisegnate le sorti dell’Italia nel «rank» dei Paesi: e pensare che poco più di un anno fa la Goldman Sachs diceva che a noi restavano solo cibo e calcio». Perché in Italia non ha avuto luogo ciò che invece si è verificato altrove, e in particolare negli Stati Uniti: «Un eccesso di debito privato, una crescita del Pil fatta a debito. Ecco, ciò che sta avvenendo adesso è proprio un «colossale swap, trasferimento da debito privato a debito pubblico». Una preoccupazione, però, sempre dal rapporto fra Stato e mercato, è emersa anche nel dibattito di ieri: le regole da rivedere, le authority da ridisegnare, il capitalismo da ridisegnare e non più da lasciare unicamente a se stesso. Tremonti sottolinea che «non ci saranno variazioni nel Patto di stabilità e crescita», Maastricht (che ricorda come luogo «dov’è morto D’Artagnan») «c’è e funziona bene». Ma da rivedere, invece, è un altro sistema di regole, come Basilea 2 (relativa ai bilanci bancari) e il core tier 1 (un indicatore di solidità patrimoniale centrale ai fini della Vigilanza). «Tutte le banche che sono fallite erano in linea con queste regole». «Basilea 2 è come la corazzata Potemkin», dice dunque Tremonti. Secondo il quale i fondi sovrani sono ok, ma «non c’entrano con il mercato» e gli hedge fund, che Sarkozy vuole abolire, vanno invece «regolati perché hanno strumenti simili a quelli dei casinò ». Più in generale, «basta con il flash capitalismo che saccheggia il conto patrimoniale, fa fuori i dipendenti per estrarre valore. tutto un mondo che va ripensato». BRETTON WOODS E WESTFALIA Ci vuole dunque una nuova Bretton Woods? Secondo il ministro dell’Economia per uscire dalla crisi dei mercati finanziari non serve realizzare una Bretton Woods Due, ma piuttosto «qualcosa di simile alla pace di Westfalia», che nel 1648 ha segnato la fine della Guerra dei Trent’anni e sancito un nuovo ordine in Europa che manteneva gli Stati nazionali e la loro indipendenza in campo religioso e di politica estera. Tremonti nelle scorse settimane ha sottolineato la necessità di andare oltre Bretton Woods e ieri ha spiegato che il trattato del ’44 «ha una caratteristica politica fortemente unilaterale, è una versione mercantile di un trattato di pace. Ha generato la Banca mondiale e il Fmi». «Da allora è trascorso molto tempo. Ora abbiamo un organo politico in più, il G8, ma manca un trattato equivalente a quello di Bretton Woods. Bisogna trovare un assetto diverso». LA TELEFONATA Il dibattito sull’euro è infine l’occasione per tornare ad alcuni temi «passati», ma non troppo. E di attualità «futuribile». Di passato si parla riguardo al changeover, cioè il passaggio dalla lira all’euro. Sul tema, Tremonti deve ribattere ad alcune domande critiche giunte dal pubblico sulla politica adottata allora dal secondo governo Berlusconi. E il ministro dell’Economia cita Stalin: «Il controllo dei prezzi è un esercizio che non è riuscito nemmeno a lui». Tremonti riprenderà il dittatore sovietico anche in un’altra occasione (per la sua abitudine di glossare a margine dei testi) e per questo dice, a proposito delle conseguenze sociali del passaggio lira-euro: «Non mi sono spostato a destra di Karl Marx perché ho citato due volte Stalin: il changeover ha distrutto la capacità di calcolo delle persone e l’indice di eurofiducia è crollato anche per gli effetti prodotti da questo passaggio repentino. La crisi finanziaria porterà una fortissima risalita nella fiducia nell’Europa e nell’euro. Di fronte alla paura la politica comune che ha cominciato a muoversi bene e con determinazione porterà sicuramente effetti positivi ». E su questo punto un elogio alla politica dell’Europa in occasione della crisi viene da Monti. Che dice: «Credo di poter dare conto pubblicamente di una telefonata che ho fatto lunedì scorso proprio a Tremonti, per rallegrarmi su come ha gestito la crisi, per la visione strategica e per le spinte a soluzioni comuni europee ». Monti stesso però non tace una preoccupazione: che il determinismo politico e il ritorno d’attenzione dello Stato per l’economia non porti a ripensamenti in termini di modernizzazioni. OBAMA E MCCAIN Il futuro, immediato, sono le elezioni americane. Impossibile non parlarne anche perché la crisi finanziaria viene dall’America. E, come è stato fatto notare più volte nel corso del dibattito, anche dalla politica Usa di favorire la crescita con il debito. «Mi interessa di più vedere alla prova Barack Obama di John McCain. Credo quindi voterei Obama, ma con un tasso di rischio », dice Monti. E Tremonti? A chi fa notare una maggiore vicinanza culturale ad Obama e una più marcata assonanza politica con McCain, il ministro dell’Economia risponde con una battuta: «Noi non siamo uomini di cultura ». Sergio Bocconi