Emilio Carnevali, micromega online 13/10/2008, 13 ottobre 2008
micromega online, lunedì 13 ottobre Il giorno dopo la pubblicazione sul Foglio del suo ”addio” alla Chiesa cattolica, mons
micromega online, lunedì 13 ottobre Il giorno dopo la pubblicazione sul Foglio del suo ”addio” alla Chiesa cattolica, mons. Betori ha voluto risponderle su Avvenire. L’ex segretario della Cei prende le distanze da una posizione che – a suo avviso – gli viene cucita addosso «senza fondamento». Afferma che la «libertà della coscienza» non può essere confusa con la «possibilità di fare quel che ci pare». Mentre la prima è la «sede della nostra scelta» – e come tale non può essere contestata – la seconda è un criterio – che non può essere condiviso – dell’azione. Cosa pensa di questa ”difesa” delle proprie tesi operata da mons. Betori? «A me pare incredibile che un termine di radice kantiana, come ”autodeterminazione” – una variante di ”autonomia”, vale a dire ”libera soggezione alla legge morale” – possa essere inteso nel senso della ”possibilità” (vale a dire, immagino, ”liceità morale”) di fare quello che ci pare. Eppure devo arrendermi all’evidenza: non soltanto Mons. Betori, che comunque ringrazio di essersi impegnato in un’esplicita risposta, ma anche altri, nei loro contributi al dibattito che si è aperto, sembrano affermare questa stessa tesi: libertà di coscienza sì, principio di autodeterminazione no. Occorre dunque procedere con la massima chiarezza, non dando assolutamente niente per scontato, e individuare esattamente il luogo del contrasto. Dunque: una prima risposta, limpida ed efficace nella sua brevità, è quella di Vito Mancuso, che ringrazio per essere teologo cattolico e insieme assolutamente estraneo a quella tecnica dell’ambiguità, dello stirare il senso delle parole fino a far loro dire tutto e il contrario di tutto, che se da un lato smorza i conflitti, dall’altro rende impossibile pensare con chiarezza, ed esercitare già fin nell’uso delle parole quella responsabilità personale (rendersi conto di quello che diciamo, farsi carico di giustificarlo) senza cui non c’è etica. Ecco la risposta di Mancuso: ”in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione? Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso?”. Ma se non si snida l’equivoco che sta dietro questa opposizione che anche Mancuso riconosce falsa, tutto resterà com’è: un gioco teatrale a colpi di slogan, parole sequestrate dalle opposte ideologie. Occorre dunque fare un po’ di chiarezza sui fondamenti. Scrive Mons. Betori: ”Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna”. Bene: qui – forse per brevità – l’espressione ”libertà di coscienza” è curiosamente usata come sinonimo di ”libero arbitrio”, come chiarisce l’ultima frase. Se l’assassino non godesse di libero arbitrio, cioè della capacità di auto-determinarsi consapevolmente a un’azione, in presenza di alternative, non potrebbe esserne responsabile, dunque nemmeno imputabile, come non lo sarebbe una tigre. Dunque per essere imputabile e punibile giuridicamente, oltre che moralmente responsabile, l’assassino deve essere certamente anche in grado di autodeterminarsi, e questo lo dice Mons. Betori e non io! Ma non ho nulla da obiettare. Altra faccenda è se si possa descrivere un ordinario assassinio come un caso di azione conforme alle convinzioni e ai più vagliati sentimenti morali dell’agente. Conforme cioè alla sua coscienza morale – perché di questo io parlavo. Io non lo credo, e mi trovo in questo in buona compagnia con l’intera tradizione platonica, patristica, scolastica e perfino biblica: è in qualche modo un’assenza, non una pienezza di coscienza morale (’cuore indurito”, ”cecità”, ”non sanno quel che si fanno”) ciò che sta alla base dell’azione moralmente illecita. Purtroppo, perché l’esempio di Mons. Betori sia pertinente, occorre invece credere che non ci sia nessuna differenza essenziale fra l’assassino e la persona che, magari dopo aver vagliato fino all’estremo limite di scrupolo e onestà il dettato della propria coscienza morale (se posso fare un esempio per chiarezza: come nel caso di Mina Welby), fa una sua scelta, conforme a questo dettato. A me la convinzione che tra questi due casi non ci sia alcuna differenza essenziale continua a sembrare un esempio di nichilismo. Ma anche Mons. Betori è in buona compagnia, come ciascuno può verificare andandosi a rileggere la dostoevskiana Leggenda del Grande Inquisitore, dove il ”nichilismo pietoso” del protagonista tende la mano agli uomini-bambini: incapaci di distinguere il bene e il male, incapaci di sopportare il peso delle proprie scelte, incapaci di convinzioni valoriali e morali. E rimprovera Cristo: ” forse costituita in modo, la natura umana, che... nei momenti dei più tremendi, dei più laceranti e fondamentali quesiti dell’anima, possa rimanersene sola con la libera decisione del cuore?”». Quando però Betori afferma che il ”principio di autodeterminazione” non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa in fondo ha ragione… «Se è per questo le cose, in effetti, non sono andate molto meglio con la libertà di coscienza, che il Magistero ecclesiastico riconobbe soltanto in chiusura del Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae): e riconobbe allora anche la raggiunta maturità morale dell’uomo, della persona umana in quanto tale. Riconobbe cioè la dolce luce dei Lumi e di Kant, sia pure con un paio di secoli di ritardo e dopo le condanne veementi del 1832 (Gregorio XVI, ”Mirari vos”), del 1864 (Pio IX, il Sillabo), o l’incredibile eppur reale scomunica al senatore del Regno Alessandro Manzoni. Ma a me pare che l’antimodernismo odierno sia molto più avvolgente e sinuoso, molto più… avvelenato, mi si perdoni la parola, perché legato a filo doppio con una rinnovata tendenza a sabotare i fondamenti di una cultura della responsabilità personale. Quella che è sempre mancata al nostro Paese, e la cui mancanza produce il disastro civile e morale cui assistiamo quotidianamente. Una tendenza che ha oggi davvero del diabolico, perché – insisto – affonda la sua radice nuova in pieno nichilismo. Non ho citato a caso il Grande Inquisitore, benché io sia convinta che questa figura dostoevskiana non si riduca affatto al rappresentante per antonomasia della Chiesa cattolica, certamente non amata da Dostoevskij. Il Grande Inquisitore potrebbe ben figurare fra i grandi disincantati cui si rivolge lo Zarathustra di Nietzsche, coloro che ”hanno visto tutto”, ma non hanno ancora forse superato la compassione per l’uomo. Non lo dico per divagare con la letteratura, ma per sottolineare la differenza fra l’antimodernismo tradizionale della Chiesa e quello, diciamo, recente, cioè posteriore al (neutralizzato) Concilio Vaticano II. vero, Monsignor Betori parla di una ”cultura dell’autodeterminazione che va contro le radici cristiane della nostra cultura”, e in questo modo sottolinea la continuità fra la Chiesa che si è opposta, fino al Concilio Vaticano Secondo, anche alla libertà di coscienza - e quella che è venuta dopo. Ma guardate come il Magistero interpreta oggi quella ”libera decisione del cuore” che – possiamo dubitarne? – è condizione necessaria perché un atto abbia valore morale positivo. La interpreta esattamente come fa il Grande Inquisitore. Cioè come fosse la pretesa di creare, con la propria decisione, il bene e il male. Come fosse la pretesa che ciò che io decido sia bene, tale sia anche. Che è esattamente il contrario di ciò che da anni vado dicendo, e questo è pochissimo importante; ma soprattutto – e questo invece è madornale – è il contrario di quello che ci fa intendere il Cristo quando dice ”Thalita kumi”, ”svegliati fanciulla”. Quando chiede all’anima di risvegliarsi, di vedere e sentire quanto belli possono essere i gigli dei campi o quanto male è dare scandalo a un bambino, e di rabbrividire di questi atti perché sente e vede (’chi ha orecchi per intendere…”), e non perché un altro o la Sharia o una legge dello stato glielo comanda. Ma oltre al Cristo, è il dolce lume della nostra maturità morale, orrendamente tradito dai relativismi, i fideismi tragici, i nichilismi, i decisionismi, le teopolitiche totalitarie del secolo scorso, che ci chiede di fondare la norma morale sulla percezione di valore, su un vederci chiaro del cuore e della mente, e non sull’autorità di un altro, fosse pure il Papa. A meno che non ci si venga a dire – perché davvero le sorprese non hanno fine – che per la bontà di un’azione non conta che il cuore vi assenta come a cosa giusta. Per esempio, se una donna cristiana come Mina Welby, nella sua estrema onestà e sincerità, non avesse sentito come cosa giusta, avendola vagliata in lunghi anni, che a un uomo fosse negato il diritto di rifiutare le cure, sarebbe stato moralmente valido piegarsi all’autorità che le ingiungeva di giudicarla giusta? quello che Betori suggerisce: e io non dovrei considerare nichilistico un simile atteggiamento? ovvio che il cuore può sbagliare, ed è verissimo che il cristianesimo ci insegna in primo luogo a dubitare di noi stessi e della trave nel nostro occhio. Vuol forse dire questo che non dobbiamo poter vagliare con la nostra testa e il nostro cuore qualunque decisione che dobbiamo prendere? E non è, come mi sembrava di aver scritto chiaramente, precisamente perché, anche dove la legge non interviene, si può agire in un modo o nel modo contrario, che agire bene (cioè secondo ciò che è moralmente dovuto) ha un valore morale, e agire santamente, cioè oltre ciò che è moralmente dovuto, può essere sublime? Ma una cosa buona o una sublime può mai farsi per forza, perché è proibito fare altrimenti? Che valore morale avrebbe un’azione fatta non per convinzione ma per rispettare la legge? Ma torniamo al punto. incredibile come uomini di Chiesa, e fra questi fini commentatori della Bibbia, accettino l’alleanza con un pensiero – come quello di quell’Odo Marquard citato da Ferrara nella sua risposta al mio intervento – per il quale la libertà di coscienza e di autodeterminazione morale equivale a bandire il trascendente dal nostro orizzonte, sostituendo il proprio arbitrio soggettivo a Dio. Questa è una tesi storicamente e filosoficamente falsa. Quando chiedo – con tutta intera la tradizione filosofica e teologica cristiana – di poter vedere le ragioni per le quali un’azione è retta (Anselmo d’Aosta) e l’opposta no, per regolarmi di conseguenza portando tutta intera la responsabilità dei miei eventuali errori, è forse perché voglio mettermi al posto di Dio, ”autoprodurre il bene e il male”, come scrive il Patriarca di Venezia (Il Foglio, 3 ottobre 2008, articolo di M. Burini)? Ma come si può aver dimenticato che proprio al contrario, per liberare dall’arbitrio del potere e dalla sudditanza servile o infantile la coscienza morale – almeno la coscienza morale (ma anche la grazia di poter prestare ascolto al soffio del divino, per chi l’ha) abbiamo riconosciuto alla coscienza di ogni persona umana adulta, indipendentemente da sesso religione o non religione, il diritto-dovere di chiedersi in ogni istante della vita: ”perché”? Questa domanda è la profonda radice comune dell’etica e della logica: e non è nichilismo quello di chi non ci crede capaci ne dell’una né dell’altra? Ma andiamo alla radice delle cose, una volta per tutte! Oggi il linguaggio delle gerarchie, a partire dallo stesso Papa, fa leva precisamente sulla tesi che ”se Dio non c’è tutto è permesso” – che è precisamente la premessa nichilistica del ragionamento del Grande Inquisitore. Il nichilismo, attenzione, non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe! Perché se questa ipotesi, o l’ipotesi che ci sia, qualunque cosa significhino, si potessero confermare o escludere in base alla nostra ragione, non si vede cosa ci starebbe a fare la fede, o la sua assenza – in che cosa si distinguerebbero da opinioni più o meno ragionevolmente ben fondate. Il nichilismo almeno virtuale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale – che non a caso torna e ritorna in bocca a certi personaggi dostoevskiani, o nietscheani. ”Se Dio non c’è tutto è permesso” vuol dire in primo luogo, nella brutale versione ciellina, che ha il vantaggio della sincerità: ”se non sei credente (anzi cattolico) sei moralmente incompetente” – sei virtualmente un assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai legge morale, chiederò allo stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza morale (sto quasi-citando la tesi di don Angelini, Il Foglio, 3 ottobre 2008, articolo di Burini). E vuol dire dunque, in secondo luogo: ”Se Dio non c’è, dio sono io”. E qui il nichilismo si fa improvvisamente chiaro: quella stessa auto-deificazione che veniva imputata all’uomo moderno (e che invece l’uomo moderno ha strenuamente combattuto, fra l’altro, con la distinzione fra diritto, religione e morale e la critica radicale di ogni teopolitica, tanto è vero che fu il costituzionalista di Hitler, Carl Schmitt, e non gli eredi di Locke, a riportare in auge questo concetto) ora la si vuole rendere addirittura fonte di legislazione, radicando lo Stato e le sue leggi in una confessione religiosa. Bisogna dunque fare ”come se Dio ci fosse”: non è questa la tesi del Papa? Dio – cito Giuliano Ferrara – che ”come nell’antica e medievale teodicea, porta il fardello del male nel mondo, magari attraverso il suo angelo caduto”. Se no, ”niente resta per la fede petrina… niente per la chiesa e per il Papa”. In chiaro: nella legge dello Stato bisogna far posto all’istituzione che rappresenta Dio, anche se non c’è. Sto citando un ateo, che continua a definirsi devoto benché sia difficile capire a cosa. Apprezzo il suo gusto per le battaglie di idee. Ma mi perdonino gli amici che mi hanno rimproverato un eccesso di aggressività, mi perdoni Ferrara stesso: questo non è cinismo, oltre che nichilismo? Affermare che la Chiesa debba governare le coscienze in nome di Dio, e governare anche le decisioni delle persone attraverso le leggi dello Stato, precisamente perché Dio non c’è? E se mi dite che la sua non è la posizione della Chiesa, allora perché molti intellettuali cattolici continuano a ribadirla, inclusa la confusione dell’autonomia morale con l’arbitrio soggettivo? E allora, finiamo di andare a fondo di questo concetto. Perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso? Affermarlo è affermare che se Dio non c’è, nessuna cosa ha valore, positivo o negativo: non ci sono cose preziose e fragili che dobbiamo proteggere, non ci sono azioni orrende o anche solo gesti volgari che dobbiamo evitare, e così via. Ma come si può affermare una cosa del genere? Solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio. Ma questo è vero solo se è vero che il bene è tale perché Dio lo vuole, e non invece che Dio (se c’è) vuole il bene perché è bene. Infatti, solo dalla prima segue che se Dio non c’è non c’è niente che sia bene o male in sé. Dalla seconda non segue affatto. Dio vuole il bene perché è bene – se c’è. E se non c’è, il bene di un’infanzia felice resta tale, il male di un’infanzia straziata pure. Fu Platone, nell’Eutifrone, a mostrare che l’alternativa che poi si chiamò ”volontaristica” conduce al nichilismo, ed è la rovina dell’etica. La quale è laica o non è, esattamente per questa ragione: che deve essere sottratta all’arbitrio di coloro che parlano in nome di Dio (e ciascuno porta un dio diverso) e all’autorità non criticamente vagliata della tradizione. E concludo qui la mia risposta alla sua domanda sulla Chiesa cattolica e il principio di autodeterminazione. Tutti i Padri greci – nella misura in cui sono platonici; Agostino; Anselmo; Tommaso; il grande gesuita, libertario in metafisica, Luis de Molina; per non parlare evidentemente di filosofi altrettanto universali come Leibniz (che a mutare idea su questo punto cercò di indurre i Luterani e i Calvinisti): tutti questi maestri hanno seguito Platone nel dilemma dell’Eutifrone. Il bene non è tale perché voluto da Dio, ma Dio vuole il bene perché è bene. Solo pochi fra i filosofi del Novecento europeo – Moritz Schlick, Husserl, Scheler e gli altri fenomenologi, e almeno due grandissimi cristiani come Albert Schweitzer e Dietrich Bonhoeffer – seguirono questa via, che è naturalmente la dolce via dei Lumi. (Devo aggiungere allora che l’’abissale” e irrazionalistico, cioè volontaristico, fideismo che Ferrara mi attribuisce mi è tanto estraneo quanto il suo vero complemento, la teopolitica?) Quasi tutti gli altri presero l’altra via, considerando ”piattamente razionalistica” la tesi platonica, e adottarono le forme moderne del volontarismo: decisionismo, relativismo, fideismo. Negarono che ci fosse verità o falsità, accessibile alla sensibilità e alla ragione puramente umane, in materia di valori e norme. Legarono il giudizio di valore non all’attenta coscienza e alla (perfettibile ricerca di) conoscenza delle persone, ma alla nuda, irrazionale volontà di un soggetto – fosse un soggetto politico nell’arena di un conflitto o di una guerra, fosse questo o quel dio o destino dell’Occidente o dell’Oriente. O ultimamente, con l’ultima generazione di teopolitici, fosse una chiesa. Si poteva sperare che, con una così forte tradizione anti-volontaristica alle spalle, la Chiesa cattolica non seguisse questa maggioranza. E invece l’ha fatto, e lo conferma ogni giorno di più. Per questo ho detto che l’antimodernismo di oggi, certamente in continuità con quello di ieri, ha però un fondamento diverso e peggiore». Dalle parole della sua lettera traspare il grande travaglio intellettuale ed emotivo che ha accompagnato la maturazione di questa decisione. Perché proprio ora ha deciso di dare l’addio alla Chiesa cattolica? Sono anni che la Chiesa va ripetendo le posizioni che lei ha appena citato, anche in relazione alla ”fine della vita”. Episodi come il rifiuto di concedere i funerali religiosi a Piergiorgio Welby sono stati molto più eclatanti nel rivelare una totale mancanza di pietas cristiana da parte delle gerarchie ecclesastiche. Perché, dunque, proprio ora? «Quella lettera è breve, ma non è la prima. E sono proprio questi anni che lei menziona, quelli che hanno finito per averla vinta sulla speranza che il divino possa ”abitare un’istituzione terrena senza perdersi”. Mi permetto di riprodurre qualche passo di Sullo spirito e l’ideologia: una vera e propria Lettera ai cristiani, che uscì nell’inverno del caso Welby. ’Mi accorgo che il tema di questa lettera è da capo a fondo quello dell’ideologia, e comincio forse a sentire la radice della pena che mi spinge a scrivere: l’ideologia mi è apparsa come l’antitesi dello spirito, e insieme come la sua contraffazione diabolica, e il dubbio mi ha presa che questa contraffazione diabolica minacci dall’interno ogni fede che si fa istituzione terrena. Per questo è soprattutto a voi che scrivo, amici che più di me sapete cosa sia ”spirito”, dato che è un nome di Dio. Perché spero che mi liberiate da quel dubbio – che altri, forse i più, danno per scontata certezza, al punto che ”chiesa” ha assunto nel linguaggio comune anche il senso di ”setta” o ”partito”. Ma io ancora dubito, dubito soltanto. E mi aggiro per questo Paese, e non posso fare a meno di stupire per la bellezza delle sue innumerevoli chiese, per l’incanto dei suoi monasteri, per la povera, affamata fatica dei suoi cercatori di spirito, per lo splendore delle loro antiche biblioteche, per la luce di alcune delle loro parole – delle vostre, amici. E penso che di molti mali è stato chiesto perdono, che di alcuni ancora forse non si ha chiara coscienza... Ma di questo? Come tacere di questo, che è così pervasivo e sinuoso, così inafferrabile e cangiante: l’ideologia. E come parlarne, con un po’ di chiarezza, e onestamente?” Lungi dal liberarmi da quel dubbio, e pur restando intatta la mia gratitudine per tutti quelli che, fuori e dentro la Chiesa, hanno trovato non infondate le mie domande, la maggior parte delle risposte che ho ricevuto mi ci hanno ricacciata in pieno. Non tanto per le stroncature, che pure ci sono state, quanto perché in troppe quasi-risposte mi si mostrava, lo dico con grande tristezza, il volto bifido dell’ipocrisia, paradossalmente di un’ipocrisia che non sa più di esserlo, che forse è in buona fede – ma questo è anche peggio, perché è come se l’integrità della coscienza fosse incrinata dalla sudditanza del cuore (che è cosa toto genere diversa dall’obbedienza al vero). E poi il dolciastro della melassa solidaristica, a condire il rifiuto di onorare la solitudine della coscienza personale, e la confusa dialettica della relazione a offuscare la negazione della responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso. Ecco un esempio. Ero rimasta esterrefatta, in occasione del caso Welby, di leggere o udire sulla bocca dei politici frasi di questo genere: ”la legge deve garantire la libertà di scegliere la vita, e non di scegliere la morte” (la frase è stata pronunciata da Rosy Bindi, che pure è una persona di grande onestà e buona volontà, nel corso della trasmissione Otto e mezzo) seguita alla morte di Welby. Ma come si fa a ”scegliere” la vita, se la morte non è un’opzione? un uso del verbo ”scegliere” che lo svuota di senso. Ma poi ho dovuto constatare che perfino da parte di filosofi, sia pure cattolici – intendo dire di persone per le quali la logica dovrebbe essere ancora più che per tutti noi l’etica del pensiero – venissero uscite di questo genere: ”La persona… non è libera di disporre di sé e degli altri, ma è libera di prendersi cura di sé e degli altri, in nome di quel Dio che abita dentro la coscienza…”. un esempio recentissimo, da una lettera sull’Avvenire, direttamente rivoltami (Paola Ricci Sindoni, 5/10/08). Ma come si fa a essere liberi di prendersi cura di sé e degli altri, se il non farlo non è un’opzione? E chi ha detto che chiedere per sé o per altri una morte dignitosa non sia ”prendersi cura”, ma sia ”disporre della vita”, propria o altrui? E come è possibile dare per ovvio che ”disporre di sé” sia identico a ”disporre per altri”, quando appunto questo era il punto in questione? Un controsenso logico e due assunzioni infondate in una sola frase: in una lettera dove si dice di avermi ascoltata. Quando appunto le questioni che avevo posto (e da anni) sono nascoste e uccise sotto quelle tre fallacie. (Chiedo perdono di questa franchezza, cara Paola che mi chiedi di ascoltarti a mia volta: ma è proprio questa mistura di richiamo affettivo e di indifferenza logica che, per il mio modo di sentire, inquina il cuore, la cui purezza non prescinde, anzi si nutre, dell’amore di evidenza e di esattezza). Tutto questo alimentava una delusione crescente e inaspettata. Inaspettata (nonostante il facile sarcasmo di quelli, a me prossimi, che non avevano mai sperato) per me che mi ero letteralmente innamorata della bellezza e della bontà di alcuni veri testimoni del divino, anche dentro questa Chiesa. E non per tradizione famigliare, ma per gratitudine nei loro confronti, oltre che per il deposito di sapienza che i secoli cristiani hanno accumulato, sostavo volentieri sulla soglia delle chiese, e in qualche modo nutrivo una speranza di liberarmi di quel dubbio. La delusione è stata tanto più cocente quanto più cresceva intorno a noi l’uso sfacciatamente ideologico e politico del nome di Dio. Né ora né mai, certo, cesserò di amare gli uomini e le donne veramente divini – nella loro semplice, del tutto ignota umanità – che ho incontrato, e a cui debbo il pochissimo di luce di cui ancora vivo. Ma se prima ne dubitavo, ora ne sono certa: santi e veri sapienti ce ne sono ben pochi, ma ce ne sono dappertutto, perfino dentro le chiese, e purtroppo non le riscattano. E perché dovrebbero, del resto? Loro sono infinitamente oltre, sono vicini al vivo – che è quanto di più lontano ci sia dalle battaglie: se le sono già tutte lasciate alle spalle. So bene, del resto, che anche con queste parole, con questo nuovo intervento, io vengo inevitabilmente (mi scuso della brutta parola) ”usata” da una parte, per averne respinto un’altra. Nonostante il mio motivo unico fosse lo spavento per quei paraocchi del cuore e della mente che sono le ideologie, e nonostante che della parola ”cattolico” io non abbia amato il suono, ma il senso etimologico, il senso antico. Potevo scrivere mille lettere, o non farlo: era lo stesso. Ma il nostro non è solo il paese dei guelfi e dei ghibellini, è anche un paese dall’anima teatrale. Efficaci – almeno per un’ora, sulla piazza – sono solo le rappresentazioni e i gesti, non i pensieri e gli argomenti. E così è stato anche della mia piccola vicenda. Nel suo articolo pubblicato sul Corriere Vito Mancuso, dopo averle dato completamente ragione nella ”disputa” con mons. Betori, chiude con parole di ottimismo: «Ho fiducia nello Spirito: come la Chiesa è giunta ad accettare la libertà di coscienza sulla dottrina, così giungerà ad accettare la libertà del soggetto rispetto alla propria (alla propria, non a quella altrui!) vita biologica». Si sente di condividere questo ottimismo (almeno nel lungo periodo) o la sua scelta di dire ”addio” è maturata anche in virtù della perdita irreversibile di ”fiducia nello Spirito”? Lo Spirito – il vivo, la brezza che soffia dove vuole, e non sai donde venga né dove vada – io credo non sia qualcosa in cui si possa cessare di aver fiducia - senza morire (dentro). Ma credo anche che non abbia senso pensare che questo vento soffi altrove che nell’anima delle persone: è ciò che ci ravviva, che ci dà sollievo, che ci rallegra, che spalanca e approfondisce i nostri orizzonti valoriali, intensificando indefinitamente la nostra percezione di ciò che è prezioso e di ciò che è fragile, e la nostra attenzione al reale e al vero. Ma se è così, allora non si può separare la fiducia nello Spirito dall’intimo rinnovarsi di un consenso, e di una prontezza a operare, dove e come lo si sente soffiare. Vito Mancuso sente che questa Chiesa diventerà migliore, in quanto sente di poter operare nel suo seno perché migliore diventi: e io glielo auguro vivissimamente, e spero che sorga, anche in base al suo esempio, una nuova generazione di teologi e uomini di spirito che davvero raccolga la migliore eredità del cattolicesimo, e rigetti la peggiore. Me lo lasci dire in modo figurato: tutti noi, almeno una volta nella vita, ci fermiamo a considerare i nomi che avevamo dato a Dio. Nessuno di quei nomi, ci insegnano coloro che sono veramente andati a fondo - i mistici - può corrispondergli veramente. Ma quei nomi corrispondono forse a quel tanto di buono che noi possiamo realizzare in terra, e chi fa attenzione sa che in fondo non è in suo potere ”scegliere” quei nomi, dato che sul loro sfondo e nel loro senso fa ogni vera scelta. Così, non è davvero più in mio potere associare al nome di ”Chiesa cattolica” una qualche speranza di bene, e di bene che io possa contribuire a fare. Di più: ho sentito, in seguito all’ormai irrefrenabile dilagare, nel nostro Paese, dell’uso ideologico e politico del nome di Dio, che non era più possibile far spallucce al dubbio che alcuni mi avevano insinuato: ”ma non sarai anche tu una di quelli che a parole, o in privato, dissentono, ma poi alla fine con la loro stessa opera finiscono, magari inconsapevolmente, per giustificare l’ingiustificabile?” – No, non era più possibile tollerare l’equivoco. E certamente non era facile scioglierlo: un filosofo e amico, Paolo Spinicci, mi scrive: ”non riesco a leggere nelle parole del signor Betori molto più che una delle voci che rendono la Chiesa quella strana cosa che è - un coacervo di contraddizioni, di istanze nobili e di meschinità, di autoritarismo immorale e di grande generosità umana”. E conclude: le voci peggiori debbono essere contrastate, ”ed è forse per questo che non capisco di preciso che cosa voglia dire chiudere ogni collaborazione con chi ”abbia una diretta o indiretta relazione alla Chiesa cattolica italiana’”. Ha forse ragione: e della Chiesa fanno parte non solo molti uomini e donne da cui avremmo tutto da imparare, ma anche figure come quella di Carlo Maria Martini, che ognuno di noi è grato di avere incontrato, o uomini di grandissima cultura e intelligenza, biblisti come Gianfranco Ravasi o Paolo De Benedetti, e anche sacerdoti come Abramo Levi e Angelo Casati, e monaci come Camillo de Piaz e Davide Turoldo, o gli amici delle comunità di Bose, di Camaldoli, di Fonte Avellana, di riviste intellettuali e spirituali come Esodo o Servitium – e chiedo scusa ai molti altri di cui non faccio il nome - per i quali tutti io continuo a nutrire una profonda, perfino timida ammirazione, pur continuando a chiedermi perché mai la loro voce non si senta di più, anche nelle materie del contendere. Ha ragione, Spinicci: ma non ha forse vissuto il dubbio che gravi sopra di sé, nonostante tutto, un sospetto di complicità, o almeno di non assoluto, radicale dissenso, rispetto a quell’autoritarismo immorale ma inzuccherato d’amorosa indulgenza e avvolto nei sofismi che è oggi il volto dominante – purtroppo- del cattolicesimo italiano. La differenza è la filosofia, che non è una disciplina accademica ma un modo di vivere e pensare, e in questo senso una vocazione oltre che un mestiere: ed è quel modo di vivere e pensare appunto che non può né sul breve né sul lungo periodo allignare nell’abbraccio ”di un coacervo di contraddizioni”. Per concludere, dunque, su quest’ultima domanda: il mio addio resta tale, in tutti i sensi del termine, compreso quello etimologico. Come tale resta la mia ammirazione per i santi (non sono certamente tutti quelli del calendario!), quelli morti e i viventi d’oggi, che sono nella Chiesa (e per quelli che ne sono fuori). Ci sono veramente molte e diverse strade che puntano forse, e se non ci illudiamo troppo, verso quell’irraggiungibile ultima, sempre nuova e sempre nascente vita del nostro vivere che chiamiamo lo Spirito, o il divino: e la via che porta di fatto il nome di ”cattolica” non è la mia, per infinitamente irrilevante che questo sia, su questa terra e in cielo. Emilio Carnevali