Sergio Romano, Corriere della Sera 19/10/2008, 19 ottobre 2008
Una nipotina mi ha chiesto di spiegarle per sommi capi, ovviamente, essendo studentessa di terza media, le caratteristiche della Costituzione italiana per via di un prossimo compito in classe
Una nipotina mi ha chiesto di spiegarle per sommi capi, ovviamente, essendo studentessa di terza media, le caratteristiche della Costituzione italiana per via di un prossimo compito in classe. Credo di aver adempiuto al mio dovere di «nonno» ex insegnante; tuttavia mi piacerebbe rivivere, attraverso la sua penna, le vicende dell’articolo 1. Renato Colmano Laives (Bz) Caro Colmano, L’articolo 1 della Costituzione è il biglietto da visita della Repubblica, una sorta di brevissimo autoritratto con cui l’Italia, dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda guerra mondiale, si presenta al mondo. Si compone di 24 parole e dice: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione». Sulle prime parole non vi furono contrasti. Che l’Italia fosse una repubblica era già stato deciso dagli elettori con il referendum del 2 giugno 1946. Che fosse «democratica » era il desiderio di tutti i membri dell’Assemblea costituente. Naturalmente la parola «democrazia» può avere, a seconda delle ideologie, significati diversi, e il problema sorse, infatti, non appena i costituenti cercarono di meglio precisare il contenuto di quella italiana. Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, propose di definirla una «repubblica democratica di lavoratori». La definizione riecheggiava quella delle democrazie popolari costituite in quegli anni nei Paesi dove l’Armata Rossa, alla fine dei conflitti, aveva insediato governi dominati dai comunisti. La formula piacque ai socialisti di Nenni, ma si scontrò con molte obiezioni e resistenze. I liberali e i qualunquisti (il partito dell’Uomo Qualunque aveva conquistato 30 seggi) avrebbero preferito evitare ogni specifica definizione della democrazia italiana. La Dc era contraria alla proposta di Togliatti e propose il compromesso («fondata sul lavoro») che finì per essere approvato. Non aveva grande rilevanza pratica, ma suonava bene ed era, soprattutto per la sinistra democristiana, una sorta di omaggio verbale alla dottrina sociale della Chiesa. Qualcuno dovette ricordare che nel cortile della canonica di San Giovanni in Laterano era stato eretto nel 1904 un «monumento al Lavoratore», in marmo, opera dello scultore Annibale Monti. Alla base della statua, incise su tavole di bronzo, vi erano le tre Encicliche sociali di Leone XIII fra cui, in particolare, la Rerum Novarum del 1891. Mentre i comunisti credettero di avere spuntato una mezza vittoria, i democristiani ritennero di avere agito nello spirito della Chiesa. Qualche problema emerse invece quando fu affrontata la questione della sovranità. Sul principio generale – la sovranità appartiene al popolo – non vi furono divergenze. Ma una difficoltà sorse quando si dovette decidere come il popolo avrebbe esercitato i suoi poteri. Vennero in discussione il concetto di popolo, il concetto di sovranità, il concetto di Stato e la fondamentale distinzione fra democrazia diretta, in cui gli elettori partecipano direttamente alla elaborazione delle leggi, e la democrazia rappresentativa, in cui gli elettori conferiscono una delega al Parlamento e al governo. Risparmio a lei e a sua nipote il dotto dibattito provocato da queste nozioni, ma le suggerisco, se vuole saperne di più, il saggio di Marco Olivetti in un libro della Utet apparso nel 2007 («La costituzione italiana. Principi fondamentali. Diritti e doveri dei cittadini. Commento agli articoli 1-54», a cura di Raffaele Bifulco, Alfonso Celotto, Marco Olivetti). La formula prescelta fu la più pragmatica e la più saggia: un rinvio a quelle parti della Costituzione in cui il problema dei poteri viene trattato concretamente e da cui si desume che il popolo in Italia, come nelle monarchie costituzionali, regna ma non governa.