Giorgio Dell’Arti Massimo Parrini, Catalogo dei Viventi 2009, Marsilio 2008, 16 ottobre 2008
MAZZA
MAZZA Anna Napoli 28 febbraio 1937 • Camorrista, vedova del boss di Afragola (Napoli) Gennaro Moccia (ucciso nel 1976 dai Magliulo e i Giugliano, clan concorrenti), per questo soprannominata la ”Vedova nera”. Secondo gli inquirenti fu lei a vendicare il marito, armando di pistola il figlio Antonio, tredicenne, che uccise il presunto assassino, Giovanni Giugliano, nel cortile del tribunale (la faida continuò, facendo quindici morti in un solo anno e mezzo). Quattro figli, tutti camorristi, il più famoso Angelo, detto ”Enzuccio” (in carcere dal 92). Uno, Vincenzo, glielo uccisero che aveva solo 27 anni, il 21 novembre 1987 (in semilibertà, doveva scontare un residuo di pena per aver ucciso, a sedici anni, il maresciallo D’Arminio) • ”Prima donna in Italia ad essere condannata per reati d’associazione mafiosa, come capo di un sodalizio criminale ed imprenditoriale tra i più potenti del sud. La Mazza sfruttando inizialmente l’aurea del marito Gennaro Moccia, ucciso negli anni Settanta, ebbe modo immediatamente di rivestire un ruolo dirigenziale nel clan. La vedova della camorra, come venne ribattezzata, fu la vera mente del clan Moccia per oltre vent’anni, capace di ramificare ovunque il suo potere al punto tale che inviata negli anni Novanta in soggiorno obbligato vicino Treviso riuscì – secondo diverse indagini – a prendere contatti con la mafia del Brenta, cercando di rinsaldare la sua rete di potere. La Mazza aveva una gestione verticistica, imprenditoriale e fortemente ostile a impennate militari, capace di determinare ogni ambito del territorio da lei egemonizzato, come dimostra lo scioglimento nel 1999 per infiltrazioni camorristiche del comune di Afragola. La Mazza istituì una sorta di matriarcato della camorra. Una sua dama di compagnia, Immacolata Capone, infatti nel corso degli anni fece fortuna all’interno del clan. La Capone fu secondo le indagini della Dda di Napoli l’imprenditrice capace di riportare - dopo una profonda crisi - le ditte dei Moccia ad essere leader nel campo dell’edilizia. A sua disposizione vi era la ditta ”Motrer”, una delle imprese più importanti nel campo del movimento terra, del mezzogiorno italiano. Donna Immacolata fu uccisa nel marzo 2004 sparata in testa in pieno centro, come un boss giustiziato dinanzi a tutti» (Roberto Saviano)• Nel 93, condannata al soggiorno obbligato a Codognè (Treviso), prese il telefono e chiamò il sindaco, democristiano, Mario Gardenal: «Io lì non ci voglio venire. Vedete un po’ di organizzare una protesta tosta…». I leghisti organizzarono una raccolta di firme per mandarla via, a cui partecipò pure un figlio della stessa Mazza. Nel giro di ventiquattr’ore dal suo arrivo (il 18 aprile), il comune fu tappezzato di striscioni e manifesti («Il Nord non ha bisogno della mafia»), fu pure montata una tenda ”della libertà” , la gente scese in piazza, chiamata dall’altoparlante dell’imprenditore Fabio Padoan, sventolando bandiere con l’effigie di Alberto da Giussano e del Leone di San Marco (il 30 aprile in millecinquecento). Padoan si incatenò all’albero del dancing ”La Pergola”, che ospitava la Mazza, e iniziò pure uno sciopero della fame e della sete all’interno della tenda, ripreso dai telegiornali nazionali, con una flebo sul braccio e la bandiera della Serenissima Repubblica a fargli da coperta. Intanto la Mazza, che girava in paese a bordo di BMW e Mercedes, in abiti vistosi e grossi orecchini d’oro pendenti, rilasciava interviste, lamentandosi dell’alloggio umido e dei pasti. Denunciò perfino il sindaco per omissione d’atti d’ufficio perché pretendeva il pagamento dell’affitto prima di assegnarle un alloggio di 160 metri quadrati (secondo la Prefettura di Treviso le spese erano a carico della confinata, vista la sua agiatezza, secondo la Questura di Napoli a carico del ministero dell’Interno, salvo l’obbligo del Comune di anticiparle). Il sindaco, che avrebbe dovuto reperire un alloggio scavalcando la lista dei senza casa della zona, minacciò di rassegnare le dimissioni (e con lui la Giunta), e poi convocò una conferenza di quindici sindaci della Sinistra del Piave, che ottennero un incontro con il ministro dell’Interno Nicola Mancino e inviarono un esposto all’antimafia, chiedendo una revoca del provvedimento. La Mazza scrisse al presidente della Repubblica Scalfaro e al guardasigilli Conso: «Sono cardiopatica, qui offendono la mia dignità di donna e di mamma… mi fanno stare in locali umidi, dove non c’è l’acqua calda e dove manca il riscaldamento. La casa non è piccola ma sporca, il mangiare assomiglia al pastone per i cani: puzza. Io non voglio regali da nessuno, il pranzo che portano a me se lo possono mangiare il sindaco, la giunta comunale e i leghisti. Quello che voglio è una stanza con un servizio adeguato e del cibo. E voglio protezione: le istituzioni hanno disatteso la legge che prevede la difesa della mia incolumità. Tra i leghisti c’è brava gente ma ci può pure essere sempre qualcuno che esagera». Nella conferenza stampa tenuta sui gradini del municipio: «Sono vittima di un sequestro di persona, se sono sospettata di qualcosa, perché non mettermi in carcere e farmi scontare le mie colpe? Sono additata, derisa, scacciata dalla gente. Qui la criminalità è latente, come riceve una spinta la situazione esplode e diventa pericolosissima». Per lo stress finì pure in ospedale, per aggravamento della patologia cardiaca. Delle bottiglie incendiarie furono fatte scoppiare pure a casa del sindaco, accusato di non essersi opposto al soggiorno. Lo stesso procuratore nazionale antimafia, Bruno Siclari, dovette riconoscere che col soggiorno obbligato si rischiava l’infiltrazione mafiosa nelle regioni settentrionali. Insomma Camera e Senato, in tempo record, modificarono la norma sul soggiorno obbligato. Il 30 luglio entrò in vigore la legge 256 («Modifica dell’istituto del soggiorno obbligato»), che disponeva l’esecuzione della misura nel luogo di dimora abituale del condannato. Il 12 agosto, la Mazza, sotto scorta, rientrò ad Afragola (Monica Cornetta, Danilo Guerretta) • Quando, per le dichiarazioni rese dal pentito Galasso, i figli finirono in carcere, fece un’altra campagna, invocando l’applicazione della legge sulla dissociazione dei terroristi ai detenuti per camorra (per ottenere sconti di pena senza pentimento), questa volta senza successo. Dalla lettera scritta al presidente della Repubblica, al guardasigilli, ai vertici della Direzione nazionale antimafia, a don Ciotti, a don Riboldi, per perorare in particolare la causa del figlio Enzuccio: «Mio figlio è stato preso dalla stanchezza, dalla nausea e dal rigetto nei confronti dell’ambiente criminale nel quale ha ammesso di aver operato per tanti anni per vendicare l’uccisione di suo padre… stato guidato dalla volontà di dare una possibilità di vita onesta, di pace e di laboriosità ai figli». [Paola Bellone]