Nadia Fusini, la Repubblica 16/10/2008, pagina 56, 16 ottobre 2008
la Repubblica, giovedì 16 ottobre Nel cuore di Londra c´è la "mia" biblioteca: in St. James Square, dietro Piccadilly
la Repubblica, giovedì 16 ottobre Nel cuore di Londra c´è la "mia" biblioteca: in St. James Square, dietro Piccadilly. Si chiama «The London Library», e nel passato l´hanno diretta Tennyson, T. S. Eliot. Da una porta alta e stretta al culmine di alcuni scalini si entra in un alveare di fervidi lettori accucciati in poltrone di pelle. E di alacri camminatori che vanno su e giù per scale antiche di ferro e cunicoli stretti alla ricerca di libri che possono toccare, estrarre dagli scaffali. E chi ama i libri sa che brivido di piacere comunica il gesto. Arrivo la mattina e rimango fino a sera. Verso l´una vado in un luogo modesto, proprio dietro l´angolo, dove però la zuppa è buona. Un giorno ero lì col mio libro a gustarmi la zuppa, quando entra una signora elegante, con uno stravagante cappello. Doveva essere intorno a Natale, perché aveva molti pacchi; era stata da Floris, in Jermyn Street, per i profumi; da Fortnum & Mason, su Regent´s Street, per i tè; da Liberty, per i tessuti. La guardai meravigliata, perché non era un tipo di persona che avessi mai visto da E. A. T. Però continuai a leggere. Senonché lei si siede accanto a me, guarda il libro che leggo e fa: «Oh, it´s Ted. I used to know him. And Sylvia, of course». Sì, Ted, lo conoscevo. E anche Sylvia. Stavo in effetti leggendo un libro su Ted Hughes e Sylvia Plath, la coppia più glamour del secolo, e lei li aveva conosciuti. «Really?» feci io incredula. Davvero? Al mio stupore la signora rispose raccontando episodi che combaciavano con quel che leggevo e avevo letto. Lei vi aggiunse la vibrazione persuasiva della realtà. D´un tratto, era tutto vero: proprio in quella città, in certe strade che conoscevo, e lei rendeva col suo racconto ancora più reali, erano accaduti certi fatti, che avevano avuto una straordinaria rilevanza nella poesia di due tra i più grandi poeti del secolo. Ma soprattutto in quel che raccontava colsi la verità di un timbro che spiegava alla perfezione la voce speciale in poesia di Ted Hughes. Più che Sylvia, l´estranea con me a colloquio aveva conosciuto bene Ted e le sue amanti. E mi parlò di un modo furtivo, quasi losco di Ted con le donne; del suo gusto per i luoghi sporchi; del suo odio per tutto ciò che è comodo, confortevole. Ted-l´oscuro «never wanted it cosy» - a lui non piacevano le situazioni comode. L´episodio mi torna alla mente sfogliando il Meridiano Ted Hughes (pagg.1810, euro 55), uscito per la duplice cura di Anna Ravano e Nicola Gardini. I due entrambi bravissimi si sono divisi le traduzioni, accogliendo nel volume le versioni anch´esse pregevoli di Maria Stella, una cara amica troppo presto scomparsa, studiosa di valore e pioniera delle devozioni nostrane nei confronti del poeta in oggetto. Anna Ravano ha poi curato la cronologia, Nicola Gardini l´introduzione e le note: il tutto orchestrato con l´impeccabile cura a cui ci hanno abituato i Meridiani diretti da Renata Colorni. Mi è tornato a mente l´episodio perché nell´introduzione si cita un´intervista dove Ted se la prende, per l´appunto, con chi «wanted it cosy». E ce l´ha con certi poeti che al contrario di lui reagivano alle ansie dell´epoca con lucida freddezza, o addirittura con esibito disimpegno. Con un tipo di poesia ironica e beffarda. Come facevano Auden, Larkin. Spiega, l´intervista, perché Sylvia Plath, poeta anche lei di eccelsa natura, giocando con il nome Hughes, che richiama nella prossimità con huge l´idea di immenso, possente, chiamò Ted il «colosso». C´è un ideale di forza in Ted, che spesso tramuta in rozzezza. Rozzezza del pensiero, con conseguente rigidità del verso, e un certo compiacimento ideologico della brutalità. Come se la semplicità fosse di per sé un valore. Come se certi concetti astratti quali patria, nazione, natura, potessimo prenderli "semplicemente". I poeti si potrebbero dividere in due grandi schiere; chi ha bisogno di ali per volare, chi ne fa a meno. In una famosa lettera Keats lo spiega: lui è un poeta che non ha le ali. Quando precipita, se torna su è grazie a una specie di forza negativa, una forza che non ha, che non coltiva. Altri cercano invece sostegno, appoggi, stampelle, che possono avere anche nome «volontà di sapere». Ted Hughes, in particolare, coltiva una forma specialissima di sapienza personale, in cui si mescolano conoscenze sacre e profane suggestioni buddiste e tibetane, pregiudizi pagani e apodittiche credenze junghiane. Non ha la «capacità negativa»; aspira alla forza, ammira il potere. Vagheggia un poeta sciamano, un poeta guaritore, che sani le ferite. Mentre per lo più i poeti sanno lasciare aperte le ferite, e disvelano la fallacia di chi promette guarigioni. Vero è che nelle poesie compiute, felici - e sono molte - la zavorra decade. E la tensione eroica, salvifica del poeta sciamano si arrende a un dettato di straordinaria e straziante intensità musicale. Che fossimo in presenza di un grande talento lo si capì già con Il falco nella pioggia e Lupercale. «Il falco appollaiato» - una specie di tour de force alla Lawrence - entrò nelle antologie scolastiche d´acchito. Oltre che di Lawrence si sentì l´eco di Yeats, Hopkins, Thomas, Eliot, ma la lingua era già sua, con quel gusto che mai verrà meno per l´esperienza. Solo che a volte il poeta scambiava la vitalità per vita e l´ardore per eroismo, e non bastava l´impiego dell´aggettivo "huge" a rendere grandi «gli antichi eroi e il pilota bombardiere», per fare un esempio. Alcuni componimenti erano davvero opachi: «Testa d´uovo» una poesia difficile da leggere, con quella spinta affermativa vacua, vana. Dopo la separazione da Sylvia Plath e il suo suicidio, per qualche anno Ted tace. Legge, lavora all´edizione delle poesie di Sylvia, quell´Ariel che grazie alle sue cure vedrà la luce nel 1966. Quanto a sé, nel 1967 partorisce Wodwo, dove nasce una figura, uomo o bestia o essere fatato che sia, che è una maschera del poeta. Wodwo si chiede: «che cosa sono io?» e non sa rispondere. Sa di essere «il primo», il primo di una nuova specie. E´ tutto molto «strano» quel che vede intorno, ma continuerà a guardare: non solo quel che è fuori di sé, ma l´altro dentro di sé. Movimento che ha imparato da Sylvia Plath: «La luna piena e la piccola Frieda» lo dimostra. Procede verso Corvo, il predatore. In un mondo atroce sopravvive il più abile a negoziare con la violenza. Quand´anche «Corvo sulla spiaggia» senta «nelle grida e nelle convulsioni» del mare qualcosa, «il cervello nel suo minuscolo cranio» non arriva neppure a chiedersi «che cosa causasse tanto dolore». E´ il leit motiv che ritorna nelle lettere di Ted a proposito del suicidio delle due donne che ha amato: Sylvia e Assia. Ogni volta si chiede: perché non ho capito? In «Corvo tirannosauro» si risponde: avrebbe dovuto «smettere di mangiare», se avesse capito. E non lo fa, non smette: «piangendo andava e colpiva». Corvo è così, Corvo è everyman, uccide per vivere. A volte Ted strafa; esagera; cerca lo shock del lettore con eccessi facili. Pretende che concordiamo con il suo determinismo cadaverico, fino a dire che sì, l´esistenza è irredimibile. Eppure, allo stesso tempo, vorrebbe che non ci disperassimo del tutto. Non completamente. C´è chi ha trovato in lui la medesima specie di speranza disperata che si trova in Beckett. Sono d´accordo: dopo tutto, «Corvo canta», non sarà melodioso, ma è pur sempre un canto. Allo stesso modo i due mendicanti continuano ad attendere Godot. Come fa Ted negli anni, che continua ad avere cura della poesia. A scrivere poesie, drammi, narrazioni, traduzioni. La sua versatilità è prepotente. Non sempre è contento di quel che fa. Nel 1981 dice, più o meno: sono dieci anni che non scrivo niente di quel che volevo scrivere. E confessa: mi sembra di aver vissuto in una specie di straniamento da me stesso. Eppure, ha pubblicato Gaudete, nel 1977. Uccelli di caverna nel 1978, che considera però «freddo, studiato». Resti di Elmet nel 1979, forse il testo suo più autobiografico. Diario di Mootown, del ï¿?79: un libro stanco. Nel 1983 ci sarà Fiume, il libro del pescatore. Le diverse raccolte vengono commentate da Gardini con dovizia di particolari nelle note finali, a cui rimando. In ogni libro c´è qualcosa di eccezionale e qualcosa di morto, che si ripete. In Fiori e insetti del 1986 tra le poesie più felici v´è «Giunchiglie«, che tornerà in Lettere di compleanno: per me il più autentico, il più "nobile" dei suoi tentativi di tenere in tensione i mondi - esteriore e interiore, oggettivo e soggettivo, della Natura e della Cultura - tra cui ha sempre voluto creare ponti.. Ora il pontefice dell´immaginazione non cerca più palliativi. Mai come altrove il pensiero conficcato come una spada nel cuore lo muove a cercare immagini semplici, niente affatto allegoriche. E torna in mente una sua osservazione profonda, di anni prima: «rispettare le parole più della verità che tentano di trovare è la morte della poesia». Qui la poesia vive. Nadia Fusini