Guido Rampoldi, la Repubblica 16/10/2008, pagina 44, 16 ottobre 2008
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la Repubblica, giovedì 16 ottobre L´ambasciata britannica ha chiesto ai suoi espatriati di mandare le famiglie fuori dal Pakistan, altre ambasciate europee stanno traslocando all´interno di una zona fortificata, e gli occidentali che ora si avventurano nei centri commerciali sono così rari da attirare giornalisti e cineprese: non si sente in pericolo? Vede una luce in fondo al tunnel? Si potrebbe rispondere che ci sono buoni motivi per sperare e altrettanti per disperare; che il Pakistan è il primo test, o il test cruciale, per capire quale direzione prenderà il mondo musulmano dopo le Twin Towers e la "war on terror"; che un Occidente forte e giusto potrebbe ancora rimontare la china e utilizzare la crisi del vecchio ordine per promuovere le riforme radicali che taglierebbero la strada all´eversione islamica
la Repubblica, giovedì 16 ottobre L´ambasciata britannica ha chiesto ai suoi espatriati di mandare le famiglie fuori dal Pakistan, altre ambasciate europee stanno traslocando all´interno di una zona fortificata, e gli occidentali che ora si avventurano nei centri commerciali sono così rari da attirare giornalisti e cineprese: non si sente in pericolo? Vede una luce in fondo al tunnel? Si potrebbe rispondere che ci sono buoni motivi per sperare e altrettanti per disperare; che il Pakistan è il primo test, o il test cruciale, per capire quale direzione prenderà il mondo musulmano dopo le Twin Towers e la "war on terror"; che un Occidente forte e giusto potrebbe ancora rimontare la china e utilizzare la crisi del vecchio ordine per promuovere le riforme radicali che taglierebbero la strada all´eversione islamica. Si potrebbe offrire queste risposte alle ansie delle tv pakistane. Ma senza dimenticare di aggiungere che il barometro punta verso la burrasca, essendo l´Occidente fiacco e disunito, il Pakistan malandato, e la regione troppo caotica perché un Grande Gioco, uno qualsiasi, oggi possa dirigerla. Per quanto ridotto a spartitraffico tra le opposte corsie di un viale, a Lahore fa ancora mostra di sé il formidabile cannone Zam-Zammah che il piccolo Kim cavalca nel romanzo di Kipling ("He sat, in defiance of municpal orders, astride the gun Zam-Zammah..."). Nel 1901, l´anno in cui quel libro svelò il silenzioso Grande Gioco combattuto dagli spionaggi tra l´Indo e le steppe dell´Asia centrale, le gerarchie erano chiare: due protagonisti, la Russia e l´Impero britannico, e uno stuolo di comparse (tribù afghane, khanati, raja, sultani). Due secoli dopo gli Stati protagonisti sono almeno quadruplicati e i comprimari possono anch´essi recitare un ruolo autonomo sul palcoscenico mondiale, se riescono a connettersi con gli interessi del narcotraffico, le reti dell´islamismo radicale o le convenienze di alcuni servizi segreti. Un risultato di questo sovraffollamento è l´espandersi a dismisura del terrorismo, spesso collegato a progetti tortuosi e ad alleanze impreviste. Anche in questo il Pakistan ha qualcosa da insegnarci. Dalla fine dell´estate la frequenza degli attentati è diventata così fitta che un telegiornale adesso abbina le immagini delle stragi a un logo fisso, una nuvola di fuoco che si dilata. La settimana scorsa le bombe hanno straziato poliziotti, il bersaglio preferito; adolescenti colpevoli di amoreggiare nelle penombre di un bar; elettori di un deputato sciita; consigli tribali convocati per deliberare la formazione di milizie anti-terrorismo. Dal sud al nord, dall´est all´ovest. Caserme, scuole per ragazze, locali pubblici, mercati, raduni: nessun luogo ormai è sicuro. «La guerra al terrorismo è la nostra guerra», ammonisce una pubblicità ripetuta da tv e quotidiani. Ma quando si tratta di applicare quella formula ai Taliban pakistani, padroni di aree impervie al confine con l´Afghanistan, le cose si complicano. A quanto ci dice il viceministro dell´Informazione Akhram Shaheedi, «è svaporata la distinzione tra Taliban e terroristi». Sarebbe più esatto dire: sta svaporando. Lentamente. Faticosamente. In parlamento e soprattutto nelle Forze armate un settore importante del potere tuttora ritiene che i Taliban pakistani siano terroristi quando rivolgono le loro armi sui loro compatrioti in divisa, ma non siano condannabili quando vanno in Afghanistan ad ammazzare soldati occidentali; e anzi sarebbe sperabile che prevalessero, perché se mettessero in fuga la Nato nella regione tornerebbe la pace. Questa grossomodo è stata la "dottrina Musharraf", come gli americani hanno capito con sorprendente ritardo. Coerenti con questa visione, i servizi segreti pakistani, innanzitutto l´Isi, lo scorso anno riuscirono a spaccare i Taliban pakistani in due fazioni. Una minoranza filo-governativa e anti-araba, che l´Isi controlla. E i Taliban filo-al Qaeda, indicati dalla stampa come i "miscredenti", che combattono l´esercito pakistano insieme ai 3-5mila arabi o asiatici arrivati tra quelle montagne al tempo della "guerra santa" contro i sovietici. Guidati da Beitullah Mesud, un guerriero quarantenne indagato dalla magistratura quale mandante dell´omicidio di Benazir Bhutto, e adesso organizzati in movimento politico ((Taherik-i-Taliban Pakistan, TTP), i "miscredenti" sarebbero responsabili dell´offensiva terrorista che investe il Pakistan da alcune settimane. Si tratterebbe di una rappresaglia per quanto accade al confine con l´Afghanistan, dove i guerrieri di Mesud sono stati attaccati dalle milizie locali formate dall´esercito con i Taliban "buoni" e le tribù collegate. Spiegato in questi termini, il dramma pakistano sarebbe (quasi) lineare. Ma le Forze armate chiamano in causa il nemico storico, l´India: i suoi servizi segreti aiuterebbero il TTP di Mesud con denaro e armi sofisticate. Prove? Se si chiede ai generali pakistani si ottengono risposte vaghe. E quando un alto ufficiale dell´Isi circostanzia le accuse, si scopre che l´imputato non è tanto l´India, quanto l´alleato strategico dell´India nella regione, gli Stati Uniti. «Le racconto alcuni episodi. Per ben due volte, avendo localizzato Mesud in una zona che non potevamo raggiungere subito, abbiamo chiesto agli americani di colpirlo. E cosa è successo? Gli americani effettivamente hanno mandato un drone (un aereo senza pilota): ma dopo aver sorvolato l´obiettivo, il drone è tornato indietro. Ancora: gli americani conoscono il satellitare col quale Mesud comunica, però rifiutano di condividere con noi quell´informazione. Come lo spiega? E soprattutto, come spiega che i loro droni ammazzino sempre i nostri, mai gli altri?». Se quest´ultima domanda è corretta, una risposta verosimile potrebbe essere: l´aviazione statunitense colpisce i Taliban filo-Isi perché quelli combattono la Nato in Afghanistan; non colpisce i Taliban di Mesud perché quei "miscredenti" sono occupati sul fronte interno pakistano, dove le loro bombe spengono le simpatie che molta opinione pubblica fino a ieri riversava sui nemici degli americani. Ma quale che sia la razionalità che li guida, i bombardamenti americani sono così sommari da risultare controproducenti. Secondo il portavoce delle Forze armate, il generale Athar Abbas, «i danni collaterali che producono hanno effetti molto più gravi» del vantaggio militare offerto dall´uccisione di un notabile Talib. Effetti politici, soprattutto: rafforzano un anti-americanismo di nuovo in rimonta; e di conseguenza mettono «sotto una pressione enorme» il governo e le Forze armate. Perché gli americani insistono? «Perché gli Usa sono in campagna elettorale», rispondono generali e politologi. O forse perché il Pentagono vuole porre un aut-aut all´esercito pakistano: perda la faccia e subisca l´esuberanza dell´aviazione americana; oppure impedisca ai Taliban pakistani di andare a combattere la Nato oltreconfine e di dare soccorso e rifugio ai confratelli afghani. Ma alibi o realtà, le Forze armate ritengono impossibile chiudere la frontiera alla confraternita guerriera. Il confine è lunghissimo, spiega il generale Abbas; traversa territori montuosi che nessun esercito è mai riuscito a controllare; divide arbitrariamente famiglie, clan, perfino città. Ogni giorno l´attraversano quarantamila persone. E lo scavallano 340 strade non sorvegliate, per quanto l´esercito sia presente sul confine con 130mila soldati e mille posti di controllo, contro i cento afghani o Nato. Ma quel che adesso il Pakistan non può non mettere in conto è che, come i "suoi" Taliban possono agevolmente spostarsi in Afghanistan per prendersi qualche scalpo occidentale, così altri guerrieri, nemmeno questi disinteressati, possono compiere il percorso inverso, e portare armi o scompiglio in Pakistan. Come ci fanno notare i politologi del Policy Research Institute (Ipri), le ragioni per le quali una nazione apre un consolato sono la presenza in zona di connazionali o di interessi commerciali: ma nessuna di queste ragioni ricorre nella decisione indiana di aprire «grandi consolati, dotati di grandi disponibilità finanziarie» a Kandahar e a Jelalabad, città afghane a ridosso del confine pakistano. Dunque quei "consolati", confermano i generali pakistani, in realtà sono grandi centrali spionistiche. Ma se questo è verosimile, di cosa si occupino è controverso. Potrebbero offrire un controspionaggio al governo afghano. O svolgere un ruolo più attivo, anche se minore di quello che gli attribuisce Islamabad. Obbligare il Pakistan a concentrarsi sul confine occidentale, infatti, allenta la pressione pakistana sul Kashmir, e sulle immense guarnigioni che l´India impegna laggiù. Più concreto il sospetto, certezza per i generali, che il consolato indiano a Kandahar fomenti il secessionismo della più grande e spopolata regione del Pakistan, il Belucistan. Anche in questo caso motivi non mancano: destabilizzare il Belucistan significa mantenere un potere di veto su progetti iraniani e cinesi, invisi l´uno a Washingaton e l´altro a Dehli. Attraverso il Belucistan, infatti, Teheran vorrebbe far passare un gasdotto per esportare il suo gas; e la Cina un corridoio commerciale fino a Gwadar, il mega-porto in costruzione sulla costa pakistana, futuro sbocco per le merci cinesi in un Oceano nominalmente ancora "Indiano". Tutto questo non assolve alcuno, ma ci aiuta a capire che Europa e Usa possono salvare l´Afghanistan dai Taliban e il Pakistan dal caos solo a condizione di avere una prospettiva regionale, e di perseguirla con rapidità e determinazione. Nell´area l´instabilità è in aumento. E la presenza della Nato in Asia centrale resta sgradita a potenze che potrebbero entrare anch´esse nel gioco. Se per esempio la crisi georgiana suggerisse alla Russia di punire gli occidentali fornendo lanciarazzi ai Taliban, l´equilibrio strategico in Afghanistan penderebbe definitivamente a sfavore della Nato. A consegnarci l´ipotesi di questa nemesi (l´Armata rossa perse la guerra in Afghanistan proprio perché gli americani fornirono ai mujahiddin i lanciarazzi Stinger) è uno che di guerriglia afghana se ne intende, avendola per anni coordinata: il generale Hamid Gul. Ex capo dell´Isi, ruolo nel quale sponsorizzò l´ascesa dei Taliban, è tuttora loro amico. E in quella veste invita gli occidentali ad evitare la sconfitta («certa») negoziando un armistizio con i Taliban. Alle loro condizioni, queste: un calendario per il ritiro delle truppe occidentali, la scarcerazione dei guerriglieri detenuti e il riconoscimento che i Taliban sono un soggetto politico legittimo (al contrario del governo Karzai, con il quale non intendono trattare). Perfino nel caso che tutte queste condizioni fossero soddisfatte, i Taliban non scaricherebbero i loro alleati di al-Qaeda: «Perché dovrebbero? Stanno vincendo», dice Gul. Detto altrimenti: i Taliban vogliono non un negoziato, ma una capitolazione. Ma se le condizioni per negoziare con i Taliban non esistono, un Occidente saggio potrebbe profittare di due eventi fausti - la caduta di Musharraf e l´imminente sparizione dell´amministrazione Bush - per cominciare a costruire le premesse di un accordo regionale con le potenze dell´area. Impresa complicatissima, condizionata da un passaggio ineludibile, un compromesso tra India e Pakistan sul Kashmir. Ma se il miracolo riuscisse, anche le sorti della Nato in Afghanistan sarebbero meno incerte di quanto appaiano ora. Guido Rampoldi