varie, 16 ottobre 2008
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Adiga Aravind
• Chennai (India) 23 ottobre 1974. Scrittore. Nel 2008 ha vinto il Booker Prize, il premio di narrativa più importante del mondo (come scrivono i giornali inglesi). «[…] Un successo da record, perché Adiga è un esordiente, è il secondo più giovane autore a entrare nell’albo d’onore, è il quarto indiano nei quarant’anni di storia del concorso dopo Salman Rushdie, Arundhati Roy e Kiran Desai. La Tigre Bianca (pubblicato in Italia da Einaudi) è strutturato sotto forma di lettere scritte da un businessman di Bangalore impegnato a spiegare la sua India al leader cinese che arriva in visita. venuto su dal niente, suo padre ha trascinato il risciò in una strada polverosa di un villaggio fino a quando non è morto di tubercolosi, lui sogna la città, la raggiunge, diventa servitore, poi autista, poi confidente di un boss locale, infine si affranca e si afferma come imprenditore. anche filosofo e assassino. Aravind Adiga è lontano molte generazioni di benessere dal cattivo-eroe del suo libro. Ha studiato alla Columbia University di New York e a Oxford, ha fatto il giornalista per Time e Financial Times, ma quando risponde alle domande del Corriere esprime la stessa filosofia di White Tiger, il nome di battaglia dell’indiano che cerca in modo cinico di risalire la scala sociale delle caste. ”Questa è la storia di un uomo alla ricerca della libertà, gira intorno alla grande spaccatura tra gli indiani che ce l’hanno fatta e quelli che sono rimasti indietro” dice. Significa che per emergere bisogna ricorrere al crimine? Che la New Economy indiana è sinonimo di corruzione e cattiva società? Adiga chiarisce: ”La New Economy è un fenomeno meraviglioso per gli indiani, ma la maggior parte della gente non ha accesso all’istruzione, alla lingua inglese, alla sanità, alla possibilità di far parte della Nuova India. Io sostengo che se non si è figli della classe media, ma si fa parte di una sottoclasse e si vuole fare fortuna, si vuole diventare ricchi nel corso della propria vita realizzando quei sogni che si sono visti nelle pubblicità, allora forse c’è solo una via di fronte...”. Una storia arrabbiata quella di Tigre Bianca? ”No, è più complessa. C’è rabbia, certo, ma io ho voluto solo raccontare la vicenda di uno di quelle centinaia di milioni di poveri indiani che non hanno un volto, volevo colmare quel vuoto”. In una delle sue lettere, l’indiano che ce l’ha fatta scrive al potente Wen Jiabao ”la prego di capire, eccellenza, che questo è due Paesi in uno: c’è l’India della Luce e l’India delle Tenebre, l’oceano porta luce, ogni luogo vicino al mare è ricco, ma il fiume è nero”. L’imprenditore un po’ filosofo un po’ assassino osserva che in questi tempi in India ci sono solo due caste: uomini con una Grande Pancia e uomini con una Piccola Pancia e nel suo tentativo di crescere di peso arriva alla convinzione che la Cina debba essere il grande alleato economico della crescita. La pensa così anche il giornalista diventato romanziere? ”Sì, da noi si guarda sempre meno all’Occidente e all’America e si fa molta più attenzione alla Cina; credo che le similitudini e i contrasti tra India e Cina, la tensione e la cooperazione tra i due Paesi modelleranno il mondo futuro”. Nel romanzo però le lettere spedite da Bangalore a Pechino non ricevono risposta. Così non sappiamo che cosa Wen Jiabao pensi del ragionamento di Tigre Bianca che descrive la classe media indiana: ”I ricchi in America o in Inghilterra, che non hanno servi, non hanno idea di che cosa sia la vita: da noi quelli con la Grande Pancia, quando camminano intorno alle loro grandi case fanno stare i servitori magri in attesa sul percorso, con bottiglie di acqua minerale e asciugamani freschi. E ogni volta che completano un giro prendono dalle loro mani la bottiglia e si dissetano e poi si asciugano”. Potrebbe finire così la New India, ma secondo Adiga quando la polvere dei nuovi palazzi in costruzione si sarà posata, Bangalore potrebbe risvegliarsi come una città più rispettabile del mondo brutale da dove sono venuti i poveri disperati. ”Perché rimane schiavo chi non può vedere quello che c’è di bello nel mondo”. [...] Dicono che è un tipo solitario, lui conferma di sentirsi rassicurato dall’idea che i suoi vicini di casa a Mumbai ”non sanno che cosa significa vincere un Booker Prize, ti riportano alla consapevolezza che gli scrittori non sono particolarmente importanti”. Però si calcola che la pubblicità per il premio gli farà vendere centinaia di migliaia di copie in poche settimane. E la circostanza è oggetto di qualche polemica. Una giurata del Booker, la scrittrice Louise Doughty, critica le scelte troppo sofisticate ed elitiste che portano a premiare esordienti semisconosciuti e osserva che gli autori più leggibili (e letti), come Sebastian Faulks o Robert Harris, non sono mai stati presi in considerazione dagli accademici che presiedono le giurie» (Guido Santevecchi, ”Corriere della Sera” 16/10/2008).