Massimo Mucchetti, Corriere della Sera15/10/2008, pagina 42, 15 ottobre 2008
Corriere della Sera, mercoledì 15 ottobre Quando il governo più liberale d’Europa nazionalizza la Royal Bank of Scotland e la Lloyd-Hbos e i confratelli di Eurolandia elevano gli stanziamenti per ricapitalizzare le banche o coprirne le perdite fino a 500 miliardi, in aggiunta, beninteso, a 1700 miliardi a sostegno del mercato interbancario, quando accade tutto questo è arrivato il momento di dirci la verità, per quanto scomoda possa suonare all’orecchio di chi aveva creduto, senza se e senza ma, nella concorrenza come chiave di volta dell’economia e perfino della società, antidoto contro il privilegio delle corporazioni e motore di sviluppo generatore di ricchezza per tutti
Corriere della Sera, mercoledì 15 ottobre Quando il governo più liberale d’Europa nazionalizza la Royal Bank of Scotland e la Lloyd-Hbos e i confratelli di Eurolandia elevano gli stanziamenti per ricapitalizzare le banche o coprirne le perdite fino a 500 miliardi, in aggiunta, beninteso, a 1700 miliardi a sostegno del mercato interbancario, quando accade tutto questo è arrivato il momento di dirci la verità, per quanto scomoda possa suonare all’orecchio di chi aveva creduto, senza se e senza ma, nella concorrenza come chiave di volta dell’economia e perfino della società, antidoto contro il privilegio delle corporazioni e motore di sviluppo generatore di ricchezza per tutti. Se i governi, di qualsiasi colore, sono pronti a comprare azioni pari al valore delle prime 15 banche del Vecchio continente, la politica della concorrenza, concepita fin qui dall’Ue, viene messa in radicale discussione: lo Stato non è più solo regolatore, ma sta diventando anche protagonista. Le fedi sono nobili, ma i fatti sono duri. Nel 1993, l’Italia smantellò l’Iri perché l’Istituto aveva un debito di 23 mila miliardi di lire a fronte di un capitale ridotto a 1500 miliardi dalle perdite delle controllate. In euro 2007, quel debito vale 16,8 miliardi, meno della metà dei titoli tossici che la Banca d’Italia potrebbe dover acquistare adesso, frutto avvelenato della globalizzazione finanziaria e della ricerca del massimo valore per gli azionisti. Al commissario Karel van Miert non interessava il valore reale delle partecipazioni dell’Istituto che, poi, incasserà 56 mila miliardi di lire dalle dismissioni: quel debito, in quel momento, non era sostenibile da un privato e dunque configurava un aiuto di Stato lesivo della concorrenza. L’Italia accettò il diktat rinunciando a qualsiasi forma di politica industriale e condannando in blocco una storia e una classe manageriale, i cosiddetti boiardi di Stato, che non sempre, visto il seguito, avrebbero meritato quel giudizio sommario e generalizzato. In modi diversi, la mano pubblica si è ritirata ovunque lasciando il potere economico non a un idilliaco mercato, ma a un ceto ben preciso, i banchieri-finanzieri. Vent’anni dopo scopriamo un disastro senza paragoni nutrito da stock options che, quando siano erogate da comitati remunerazioni ben remunerati dal remunerando, sono la forma contemporanea e legale delle vecchie tangenti. A questo punto, la domanda non è più se sia bene che la mano pubblica ritorni nell’economia ma come sia preferibile che avvenga. L’Italia fascista, ispirandosi agli Stati Uniti, prese possesso di banche e imprese salvate con i denari dei contribuenti, ma lasciò la gestione a dirigenti capaci, scelti e coordinati da un ente pubblico economico affidato a un non fascista, Alberto Beneduce. Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia democratica di Alcide De Gasperi confermò l’Iri quale diaframma tra le imprese pubbliche e la politica quotidiana. Ma già a metà degli anni Cinquanta, con Amintore Fanfani, lo Stato si fece direttamente imprenditore costituendo il ministero delle Partecipazioni statali. Negli anni Novanta, i governi, per lo più di centro-sinistra, rimossero ministero e diaframma: il Tesoro azionista avrebbe venduto prima ai privati. E adesso come avverrà l’intervento statale? Se necessario, e nessuno se lo augura, la Banca d’Italia rileverà titoli tossici fino a 40 miliardi impegnando le proprie riserve e lo Stato sottoscriverà azioni privilegiate delle banche che gli azionisti non fossero più disposti a ricapitalizzare. Nel primo caso è come se, nel 2002, la mano pubblica avesse ritirato le Stilo invendute dando alla Fiat pregiate Golf di sua proprietà. Nel secondo caso, la stessa mano salverebbe le pericolanti senza pretendere ruoli di governance ma il diritto di veto sul business plan: per un verso lo Stato confinerebbe nel «parco buoi» della Borsa i contribuenti divenuti per suo tramite azionisti delle banche; per un altro attribuirebbe al ministero dell’Economia il controllo diretto delle politiche bancarie e il controllo indiretto, e perciò opaco, delle nomine. Si fa così perché – lo ha confidato all’amico Bush – già adesso Silvio Berlusconi teme di passare per socialista, mentre Walter Veltroni, scavalcandolo a destra, considera già troppo statalisti i titoli privilegiati e il diritto di veto sui piani. Curiosamente, il leader del Pd ricorda i guasti della gestione pubblica del credito ma dimentica i meriti della medesima (la Comit pubblica durò a lungo, quella privata si arrese in pochi anni) e le deviazioni criminali della banca privata (Sindona e Calvi). Forse sarebbe più utile se, a un pregiudizio ideologico singolarmente comune, governo e opposizione sostituissero un pensiero sui punti cruciali: a) se merita un intervento di tal fatta, la banca resta ancora un’impresa a scopo di lucro senza limiti o diventa una public utility a lucro in qualche modo regolato? b) se lo Stato interviene, le sue partecipazioni saranno gestite fanfanianamente dal ministero dell’Economia o rooseveltianamente (Mussolini lasciamolo stare…) da un’entità professionale che accolga e attui le linee della politica ma tenga lontani politicanti e mediatori? c) se le decisioni sui poteri dello Stato azionista, provvisorio ma trasparente, debbano essere prese con uno sforzo convergente di maggioranza e opposizione nella consapevolezza che stiamo modificando la Costituzione materiale del Paese o se debbano essere condizionate dai pregiudizi, il Pdl che emargina i «comunisti», il Pd che alla tutela del contribuente-socio antepone la diffidenza verso lo Stato perché a Palazzo Chigi c’è Berlusconi. Massimo Mucchetti