Paolo Isotta, Corriere della Sera 14/10/2008, pagina 49, 14 ottobre 2008
Corriere della Sera, martedì 14 ottobre L’ ultima opera di Bach, ch’egli non fece in tempo a veder pubblicata (1751), s’intitola Die Kunst der Fuge, ossia L’Arte della Fuga
Corriere della Sera, martedì 14 ottobre L’ ultima opera di Bach, ch’egli non fece in tempo a veder pubblicata (1751), s’intitola Die Kunst der Fuge, ossia L’Arte della Fuga. una delle più alte manifestazioni di volontà di potenza della Storia. Posto un Soggetto di Fuga severo (in Re minore, definito tono «dorico», quello dell’ethos virile e il preferito di Platone), Bach ne sviluppa diciannove Fughe in successione. Adotta tutte le sottigliezze del contrappunto, che non enumero giacché solo un teorico musicale le conosce. Trasforma il Soggetto in tal guisa da renderlo in apparenza non atto a una Fuga, per esempio quando lo enuncia in «stile francese» o secondo tipi ritmici di danza. La più grandiosa delle Fughe, l’ultima, restò incompiuta di un quarto, e l’opera si chiude così misteriosamente su di una singola nota. Bach, che l’immagine tradizionale dipinge come un pio adatto alla sua povertà, era invece collerico, violento, e alla sua povertà non rassegnato affatto; e possedeva la volontà di potenza che s’è detta. Fece un colpo da maestro riuscendo a farsi nominare compositore titolare della corte elettorale di Sassonia affinché il consiglio comunale di Lipsia cessasse di vessarlo. E vediamo come L’Arte della Fuga dimostri la sua volontà di potenza oltre che un sommo genio del quale egli era consapevole. Era convinto di vivere, solo, in un’epoca di decadenza della musica. La Fuga era allora considerata il vertice della composizione musicale, e lo fu ancor per molto, sol che si pensi agli ultimi anni di Beethoven. Bach scrive un’opera che vuol essere non solo la ultima sintesi storica della forma, anche qualcosa che ne mostri il volto definitivo, oltre il quale non è possibile andare. E in realtà la sua fama come il Re della Fuga era diffusa in tutta Europa, né scemò dopo la sua morte. Incominciarono sin dal primo Ottocento i quesiti. S’intuiva confusamente esser l’opera esoterica. Questo è stato asseverato in maniera definitiva dal volume di Hans-Eberhard Dentler, pubblicato nel 2000 dall’Accademia di Santa Cecilia e da Schott, e in seconda edizione nel 2006. Ma ci si domandava se essa fosse un trattato teorico nella forma di exempla senza commento ovvero destinata anche all’esecuzione. Per lungo tempo si sostenne esser composizione per tastiera: clavicembalo e pianoforte. La scelta appare a tutti inadeguata giacché la tecnica di tali strumenti impedisce alle singole voci di cantare arrivando all’ascoltatore come indipendenti l’una dall’altra. Stupisce peraltro un errore terminologico del Maestro stesso: le singole Fughe sono numerate e denominate ciascuna Contrapunctus, laddove il contrappunto è un mezzo fondamentale per costruire una Fuga, ch’è una forma. Il grande Helmuth Walcha fu il primo a eseguirla per organo: e per quanto il risultato fosse grandemente migliore, s’avvertiva tuttavia qualcosa d’inadeguato. L’enigma dell’Arte della Fuga è che ciascuna composizione vuol essere immagine auditiva di quell’inaudibile «armonia delle sfere» affermata da Pitagora, riesposta da Platone nel Timeo, poi da Copernico e Keplero. Ogni sfera prodotta dal giro di un singolo pianeta genera una nota e l’insieme la sublime «armonia». Il Dentler non è solo un grande violoncellista, è un conoscitore professionista del latino e del greco e si districa nella teoria musicale antica e nell’astronomia come fosse, ed è, il suo impegno quotidiano. Se così ha dimostrato nel volume citato la giustezza delle sue tesi, ha ben approntato la sua versione strumentale dell’Arte della Fuga, eseguita domenica in San Giovanni in Laterano tutta piena, con un silenzio attonito e poi un trionfo. Egli ha scelto un violino, una viola, un violoncello, un contrabbasso e un fagotto. Gli artisti sono Carlo Parazzoli, violino, Raffaele Mallozzi, viola, Hans-Eberhard Dentler, violoncello, Antonio Sciancalepore, contrabbasso, Francesco Bossone, fagotto. La concentrazione e l’intensità di quest’esecuzione non si possono ridire, come pure il suo livello tecnico altissimo: e finalmente ciascuna delle voci si è potuta ascoltare nella sua intrinseca bellezza, nella sua contrapposizione e fusione con le altre. Il tutto grazie alla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra. Concludo affermando che tale organico strumentale pare finalmente l’idoneo per L’Arte della Fuga: ne avremmo avuto la conferma definitiva se a eseguirla fossero stati artisti un po’ meno virtuosi. Paolo Isotta