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 2008  ottobre 14 Martedì calendario

Le motivazioni dei premi letterari fanno sempre un po’ sorridere. Sono spesso vaghe e vuote quanto solenni ed enfatiche

Le motivazioni dei premi letterari fanno sempre un po’ sorridere. Sono spesso vaghe e vuote quanto solenni ed enfatiche. In questo senso, il Nobel delle motivazioni andrebbe proprio all’Accademia di Stoccolma che premia (e motiva) i Nobel. Le formule più ricorrenti sono un tantino usurate: «fervida immaginazione», «profonda comprensione», «notevole contributo», «forte ispirazione», «ideali umanitari», «linguaggio evocativo», «umore sensibile», «acuta percezione », «ricerca della verità», «potenza artistica», «forza elementare », «sottile analisi», «intensità poetica», «valore universale », «importanti risultati», «significativa opera». Il massimo della banalità fu raggiunto nel 1981, quando Elias Canetti fu celebrato per «l’ampia prospettiva, la ricchezza di idee, il potere artistico». Con l’ultimo Nobel, il francese J.M.G. Le Clézio, l’Accademia ha messo in mostra un insolito sforzo esegetico: «Autore della rottura, dell’avventura poetica e dell’estasi sensuale, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civiltà dominante». La «rottura» è quella dell’avanguardia del nouveau roman cui appartenne Le Clézio negli anni 60 e che viene riconosciuta con quasi cinquant’anni di ritardo. L’«al di là e al di sotto della civiltà dominante» deve alludere in negativo ai vari DeLillo, Pynchon, McCarthy, Updike, Salinger, Roth, che in quanto americani hanno la colpa di esplorare la «civiltà dominante» per eccellenza. E forse anche gli israeliani Amos Oz e Abraham Yehoshua sono stati accantonati perché troppo «dominanti». Ma allora il peruviano Vargas Llosa? Inutile farsi troppe domande. La graduatoria dei Nobel della letteratura per nazioni vede prima la Francia con 14 laureati. Seguono la Germania e gli Stati Uniti (9), l’Inghilterra (7), l’Italia (6), la Spagna, la Russia, la Svezia (5), l’Irlanda (4). In effetti il tutto non sfugge a qualche stranezza: tra i 14 francesi, per esempio, c’è Roger Martin du Gard e non c’è Proust. Tra gli austriaci c’è Elfriede Jelinek e non c’è Musil e neanche Bernhard. Tra i russi c’è Bunin ma non ci sono Tolstoj, Mandel’stam e Salamov. Tra gli svizzeri c’è un certo Spitteler e mancano Dürrenmatt e Frisch. E se tra gli irlandesi non c’è traccia di Joyce e tra gli americani mancano Scott Fitzgerald e Nabokov, perché Deledda sì e Verga no? Si potrebbe continuare con l’albo d’oro dei Nobel mancati (più aureo, probabilmente, di quello effettivo). Tra i pochi critici italiani che abbiano stroncato senza mezzi termini la scelta svedese c’è Pietro Citati, per il quale Le Clézio è uno scrittore «mediocre». Con una postilla liquidatoria: «Lo scrittore-Nobel è identico allo scrittore-Campiello » (forse, se in passato non avesse vinto lo Strega e il Viareggio, avrebbe detto che lo scrittore-Nobel è identico allo scrittore-Strega o allo scrittore-Viareggio). Per il direttore del New Yorker David Remnick il Nobel della Letteratura è spazzatura. Il critico tedesco Marcel Reich-Ranicki pur ammettendo di non aver mai letto Le Clézio, gli preferisce Roth. Del resto, si sa, «un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere», come diceva Manganelli citando una famosa frase dell’editore Scheiwiller: «Non l’ho letto e non mi piace». Qualcuno teme che per gli accademici di Svezia funzioni al contrario: «Non l’ho letto ma mi piace». Paolo Di Stefano