Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  ottobre 14 Martedì calendario

CORDÌ Vincenzo Locri (Reggio Calabria) 18 ottobre 1957. ”Ndranghetista, ritenuto a capo della cosca omonima di Locri

CORDÌ Vincenzo Locri (Reggio Calabria) 18 ottobre 1957. ”Ndranghetista, ritenuto a capo della cosca omonima di Locri. Detto u Ragiuneri. Detenuto. Subì la prima ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa il 30 ottobre 1997, fu condannato in via definitiva il 6 ottobre 2003 a nove anni e sei mesi di reclusione (processo ”primavera”). Oggetto del processo episodi relativi al contrasto tra le cosche Cordì e Cataldo di Locri. Da alcune intercettazioni il Cordì risultò il candidato al ruolo di contabile lasciato scoperto dal latitante Cataldo Antonio. Per altro, precisarono i giudici, antefatti del processo erano: la strage del mercato di Locri (giugno 1967, morì il boss Domenico Cordì), e l’insurrezione dell’intera città organizzata in reazione alla morte di un giovane, ritenuto vicino alla famiglia Cordì, investito dall’autovettura di scorta a un magistrato della direzione distrettuale della Procura reggina (luglio 1996). Il 24 giugno 2004 fu condannato a un anno e sei mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate ai danni del poliziotto Davide Granisi, fatti commessi al termine della partita di calcio Locri-Peloro, il 16 marzo 1997 • Non gli mancava molto per scontare la pena, quando furono intercettate due lettere scritte mentre era detenuto nel carcere di Palmi. La prima, datata 4 dicembre 2005, al suo nipote prediletto, Domenico Novella, a Cuneo per l’omicidio Fortugno (vedi RITORTO Salvatore): «Carissimo nipote Micarello, io spero che la smettano con questo farti andare avanti e indietro nei vari carceri, e se non vogliono farvi uscire come sarebbe giusto, perché non si può fare la galera da innocenti come la stiamo facendo tutti… Comunque, mio caro nipote Micu (come nonno Micu) se ti dovessero tenere lì vedi che nei vari sezioni ci sono molti calabresi che ci conoscono, oltre a quel ragazzo che si chiama Piromalli… visti comunque con gli altri paesani ti risenti e dici a chi appartieni, e se ti trasferiscono me lo fai sapere subito. Tu rispetta tutti quelli che ti rispettano… e ti raccomando (anche se non c’è bisogno) stai nel tuo e quello che ti tocca fare fai nella stanza e ognuno fa il suo e se c’è qualche problema me lo fai sapere subito» (Micu si pentirà nel marzo successivo). La seconda, datata 19 dicembre 2005, a Bruno Piccolo, allora detenuto a Sulmona anche lui per l’omicidio Fortugno, in odore di pentimento: «L’importante in questi luoghi è stare tranquilli, farsi la galera con onestà, parlare poco solo quando è necessario, e sai com’è: se c’è qualcuno che fa il furbo, tipo ti dice con questa accusa chissà quanta galera ti fai, tu gli rispondi che non importa quanta galera faccio, l’importante è uscire a testa alta e che la galera non ci impressiona ». Lo raccomanda anche a Filippo Barreca, boss detenuto anche lui a Sulmona: «e se hai modo manda i miei saluti che se può fare qualcosa la fa» (la direzione del carcere non fece pervenire la lettera al destinatario, Piccolo si impiccherà nella sua residenza protetta, a Francavilla al Mare, il 16 ottobre 2007). Sulla scorta di queste lettere gli fu recapitata in carcere ordinanza di custodia cautelare il 20 marzo 2006, per associazione mafiosa, con l’aggravante di esserne il promotore. Dissero i giudici che le lettere erano «uno spaccato emblematico di sottocultura mafiosa e riconducibili ai sistemi con i quali i vertici delle organizzazioni intervengono presso i sodali per bloccare alla radice ogni possibilità di collaborazione con la Giustizia, e quindi la loro idoneità a comprovare la sussistenza dell’ipotesi accusatoria».