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 2008  ottobre 13 Lunedì calendario

La Stampa, domenica 12 ottobre Notte d’autunno, in piazza san Pietro. L’aria è mite, ma, come quella notte, ogni tanto è agitata da uno sbuffo di vento, improvviso e rabbioso

La Stampa, domenica 12 ottobre Notte d’autunno, in piazza san Pietro. L’aria è mite, ma, come quella notte, ogni tanto è agitata da uno sbuffo di vento, improvviso e rabbioso. Solo un gippone della polizia fa un’inutile guardia vicino alle transenne e il fruscio dell’acqua, nelle due fontane, copre appena il rumore dei passi sui sanpietrini deserti. L’abbraccio delle colonne del Bernini sembra troppo grande quando si è soli, in uno spazio fatto per stringersi in tanti. Così, il ricordo di quella primavera di tre anni fa, l’ultima veglia accanto al vecchio Papa, fa un po’ di compagnia. Lassù, dove le luci ora sono spente, c’erano due finestre illuminate, ma tutti gli occhi di quella piazza si appuntavano sul barlume fioco della terza. Come per sostenerlo, solo con la forza dello sguardo. Là, intorno all’obelisco, dove ora alcuni fogli di giornale si rincorrono, c’erano candele accese intorno a un gruppo di polacchi, bianchi e rossi, come le loro bandiere. Nell’angolo, dove i fari del «cupolone» non arrivavano, il silenzio raccomandato dagli altoparlanti era smentito persino da una chitarra. Perché ragazzi, venuti chissà da dove, volevano dimostrare che quello strumento di gioia poteva cantare anche il dolore di una fine imminente. E’ strano come solo le emozioni riescano ad accorciare incredibilmente i tempi della storia e ci mettano al passo di quelli della Chiesa, che conta i millenni. Ma tre anni e mezzo, anche per coloro che credono, sono tanti. Le istituzioni, pure quelle che si pensano eterne, sono fatti di uomini che cambiano e di fatti che li cambiano. Il passato, più è lungo e più sembra rallentare il mutamento che, comunque, non serve far finta di non riconoscere. C’è, ora, un Papa a cui è affidato il compito più difficile che si possa immaginare: quello di custodire la nostalgia di Giovanni Paolo II senza trasformarla in rimpianto. Benedetto XVI sta cercando di assolvere la sua improba missione e si può già cominciare a domandarsi se e come ci stia riuscendo. C’è un uomo nuovo, Tarcisio Bertone, anche alla Segreteria di Stato, primo ministro del governo vaticano. C’è, infine, anche un nuovo capo dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco, impegnato in una successione altrettanto ardua: quella della più che ventennale «dittatura» di Camillo Ruini. Non si può intraprendere un viaggio nella Chiesa italiana d’oggi, nelle sue strutture e nei suoi problemi, senza partire dal suo capo, il Pontefice. Non solo per ragioni formali: il Papa, vescovo di Roma, è il Primate d’Italia. Ma per un motivo più profondo e che non deriva nè da una vicinanza geografica, nè da una subordinazione gerarchica. Per capire i mutamenti di uno stile pontificale, infatti, basta osservare l’adeguamento, immediato e significativo, del profilo della Chiesa italiana. Avviene, se il paragone non sembra sconveniente, come nei giornali, quando cambia il direttore e la prima pagina ne rispecchia subito umori e voleri. Come negli itinerari a rischio, un cammino «laico» nei sacri palazzi deve guardarsi da molte insidie. Due, almeno, le principali e, apparentemente, opposte. Quella di voler applicare le categorie mentali consuete, della politica nostrana, anche alle vicende d’oltreTevere. Ma anche quella di fermarsi davanti all’ipocrisia o al timore dei tanti che parlano solo se non vengono citati. O di chi, per comoda abitudine o per difesa d’ufficio, nega che tra quei palazzi si nascondano i vizi degli uomini comuni, le vanità, le rivalità, i contrasti e, persino, le piccole e grandi guerriglie. Del resto, fu proprio Benedetto XVI, quando era solo il cardinal Ratzinger, a denunciare, nella famosa via Crucis del Venerdì Santo, un durissimo anatema contro i mali degli uomini di Chiesa. Da lui ripetuto e inasprito, da decano del Sacro Collegio, proprio prima del Conclave che l’avrebbe eletto Papa. Se «la continuità, al di là delle persone diverse, costituisce l’ossatura della Chiesa cattolica», come ricorda il nuovo direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian, è chiaro a tutti, ormai, come il mutamento dello stile pontificale tra Papa Wojtyla e Papa Ratzinger non sia dovuto solo alla personalità diversa dei due uomini. Giovanni Paolo II esercitò sulla Chiesa un violento scossone «interventista», esigendone una forte presenza pubblica, invitandola ad accettare la sfida del mondo moderno, scolpendo l’identità del cattolico nella società d’oggi. Benedetto XVI, invece, appare più preoccupato di definire i fondamenti di questa identità, pur non trascurando, naturalmente, di rappresentarla. «Non è un caso - osserva un fine teologo torinese, don Ermis Segatti - che un Papa scriva un libro su Gesù». Proprio perchè il cristianesimo non può vivere su una stanca tradizione, occorre ritornare, quindi, non a una fede consuetudinaria, ma rigenerata da un tuffo, per così dire, nel suo credo originario. Ecco il motivo che unisce i due aspetti più discussi della predicazione di Papa Ratzinger: «l’intrinseca comunicabilità tra ragione e fede», come scrive il rettore dell’Università cattolica Lorenzo Ornaghi in uno degli ultimi editoriali per la rivista «Vita e Pensiero» e il rilancio di quella simbologia che nei secoli ha accompagnato la vita della Chiesa nella storia dell’umanità. Anche i più convinti difensori dell’opportunità di restaurare uno stile antico nell’immagine del Papa e, in generale, nella liturgia ecclesiastica si rendono conto che questo proposito suscita, dentro e fuori la Chiesa, sorpresa e perplessità. Perchè facilmente lo si assume come prova manifesta di una mentalità conservatrice e chiusa alla modernità. Gli esempi sono numerosi, da quelli più importanti, come l’apertura alla messa in latino e la possibilità di celebrare davanti al Sacramento, cioè dando le spalle ai fedeli, a quelli più esteriori, come l’uso del vecchio copricapo, il «camauro» o il ritorno alla ferula, l’antico pastorale di Pio IX, o la comunione al fedele inginocchiato. Ma questo atteggiamento viene motivato proprio con l’esigenza di «lanciare un messaggio di continuità», come spiega Vian, ma «non bisogna semplicisticamente scambiare la continuità con la restaurazione». «Questo Papa - afferma don Segatti - è un intellettuale che usa, nella comunicazione, un doppio registro: parla a chi è in grado di comprenderlo attraverso la parola con la volontà di dimostrare la non contraddizione, appunto, tra ragione e fede e, agli altri, attraverso il costume, per sottolineare un valore che ritiene fondamentale, la tradizione popolare». Una caratteristica che proprio in Italia, al contrario di tante comunità cattoliche europee, resiste e che aiuta i credenti, nel nostro paese, a fronteggiare, con maggior vigore, il processo di secolarizzazione caratteristico di tutte le società occidentali. La difficoltà di etichettare la linea che Benedetto XVI sta imprimendo alla Chiesa universale, con la conseguenza, come vedremo, di una parallela difficoltà di identificarla in quella italiana, si può cogliere nell’interesse che, in alcuni settori della gerarchia e del laicato di tradizione montiniana e conciliare, si guarda alla concentrazione intellettuale di questo Papa sul recupero delle ragioni della fede. In antitesi, forzata ma comprensibile, alle diffidenze espresse in questi ambienti per gli aspetti di distinzione militante, politica ed etica, del modello cattolico propagandato da Giovanni Paolo II e dal suo alfiere italiano, Camillo Ruini. Come se quel «tuffo» nei fondamenti della fede, riuscisse, in qualche modo, a risucchiare nel suo vortice le tante accezioni con le quali ci si proclama cattolici oggi nel nostro paese. Il sociologo cattolico Giuseppe De Rita riconduce questo «vero cambiamento tra l’attuale e il precedente Papa alla sostituzione, da parte di Ratzinger, con l’aiuto di monsignor Ravasi, del Sacro al posto del Santo». Nel senso di un Giovanni Paolo II proteso all’affermazione di una presenza sociale del cattolico, impegnato alla creazione di un nuovo modello di vita pubblica, fondato sull’assoluta promozione dell’uomo. Mentre in Benedetto XVI prevale il mistero, l’emozione del sacro, come messaggio sconvolgente e penetrante nell’animo del popolo, non solo quello cattolico, ma anche quello laico. Da questo intreccio di ritorno alla centralità della fede, di simbologia tradizionalistica e popolare, anche di formalismo quando ci si presenta in pubblico, la personalità del Papa si riversa sia sulla gerarchia ecclesiale sia sul laicato cattolico con una missione peculiare: l’impegno all’educazione pastorale. Come ricorda Vian, il direttore che è riuscito a dare un’impronta molto più aperta e interessante, anche per i laici, all’Osservatore romano, «c’è un’emergenza educativa nel nostro paese». Lo ripete con toni accorati, alla luce della sua esperienza con i giovani, anche il decano dell’Università salesiana, il trentino padre Franco Lever: «Parallelo al movimento religioso, ci vuole l’incarnazione del vivere secondo la fede, altrimenti la ritualità è vuota. Così come dopo il Concilio tridentino c’è stata una rivoluzione nei seminari, occorre adesso investire fortemente nei leader delle comunità per assicurare la formazione educativa. La necessità di figure del genere è drammatica nella Chiesa d’oggi». C’è una battuta che circola regolarmente oltreTevere. Come tutte le sintesi, ha il dono di far intuire molte cose, anche se rischia di suscitare alcuni fraintendimenti. Vale la pena, perciò, riferirla, soprattutto perchè aiuta alla comprensione dei riflessi, sulla Chiesa italiana, del mutamento tra i due Papi all’inizio del secolo: «Wojtyla voleva riempire le piazze, Ratzinger vuole riempire le chiese». Luigi La Spina