Stefano Semeraro, La Stampa 13/10/200, pagina 52, 14 ottobre 2008
La Stampa, lunedì 13 ottobre Speriamo ne trovino uno bravo. Un attore capace, con un fisico adatto e quel minimo di tecnica che servirebbe per interpretare decentemente il «peggior attore della storia del cinema», ma uno dei più grandi tennisti di sempre
La Stampa, lunedì 13 ottobre Speriamo ne trovino uno bravo. Un attore capace, con un fisico adatto e quel minimo di tecnica che servirebbe per interpretare decentemente il «peggior attore della storia del cinema», ma uno dei più grandi tennisti di sempre. La vita estrema di William «Big Bill» Tilden diventa un film: il produttore Howard Baldwin ha acquistato i diritti della biografia del fuoriclasse americano degli anni ’20 scritta da Frank Deford («Big Bill, the triumphs and the tragedy»), ora si attende il cast. Il tennis non ha avuto grande fortuna con Hollywood e dintorni. stato usato spesso come ingrediente o decoro (Delitto perfetto, Il Giardino dei Finzi Contini, Matchpoint, i Tenenbaum), una sola volta come vero protagonista, nel deludentissimo «Wimbledon» di anni fa. Visto il personaggio, questa potrebbe essere l’occasione del riscatto. Perché William Tatum Tilden II, atleta, giornalista, attore, imprenditore, nato nel 1893 da una famiglia della Filadelfia «bene», ai suoi tempi è stato un vero blockbuster. Papà William senior era un mercante di lana ammanicato con la grande politica, Bill da cucciolo gattoneggiava fra i piedi di Theodore Roosvelt e William Taft alla Casa Bianca. Un infanzia felice, un’adolescenza segnata dalla morte dei genitori e di tre sorelle. Alto un metro e 90, intelligentissimo, la faccia cavallina attraversata da un sorriso sardonico, gli atteggiamenti «sissy», effemminati, capì in fretta di avere davanti un futuro da genio diverso. Il tennis, come l’omosessualità, fu una vocazione difficile e potente, prima diluita poi tossica. «Cosa farai quando smetterai con il tennis, Bill?», gli chiese una volta l’altro fuoriclasse yankee Donald Budge. «Credo che mi suiciderò», rispose lui. E a suo modo mantenne la parola. Fino a 25 anni in realtà Bill come tennista fu poco più che un mediocre autodidatta. Dopo la finale degli US Nationals persa nel ’19 contro William Jonhston si ritirò nel Rhode Island, e passò un inverno a spaccar legname, a smontare e rimontare il proprio gioco. Quando tornò sui campi i suoi avversari si trovarono davanti un maestro. Tilden per quasi un decennio si rifiutò letteralmente di perdere: sette Campionati degli Stati Uniti, sette vittorie in Coppa Davis, tre trionfi a Wimbledon, primo americano a sfangarla a Londra. Da professionista spopolò poi fino al dopoguerra, accumulando una fortuna - circa 500 mila dollari - che sperperò quasi del tutto inseguendo i suoi sogni di attore. Il suo collega Manuel Alonso disse che guardarlo «era come osservare Nijinsky ballare dall’altra parte della rete», per Frank Shields, il nonno di Brooke, era «una vecchia puttana». Secondo Deford qualsiasi campione di oggi faticherebbe a battere un Tilden resuscitato. Il servizio, insieme al dritto il suo colpo migliore, arrivava, dicono, a 200 km all’ora. Fu teorico supremo del gioco. Nel ’22, per una seria infezione alla mano destra gli amputarono metà falange del dito medio, ma il fenomeno ne uscì mettendo a punto una nuova impugnatura. Il ragazzone solitario aveva partorito un istrione: arrogante, teatrale al limite del grottesco, prendeva a male parole linesman e giudici, dirigenti, fotografi e giornalisti. Dagli avversari era invece idolatrato tanto per l’assoluto fair-play quanto per la tigna feroce. Esempi? In un match di Coppa Davis, nel 1923, perse volutamente l’intero terzo set per risarcire l’avversario di un errore commesso a suo favore da un linesman. Sempre in Davis, nel 1921, sotto due set contro il giapponese Shimizu, infebbrato e molestato da una vescica riuscì a chiudere 7-5 il terzo, poi si tuffò vestito sotto la doccia fredda negli spogliatoi. Il capitano Usa Sam Hardy si sentì intimare «Spogliami!». Rivestito di abiti asciutti e dopo essersi fatto incidere l’ascesso al piede, Big Bill tornò in campo e lasciò tre game a Shimizu nei restanti due set. Nel ’27, a Wimbledon, riuscì invece a smarrire una incredibile semifinale contro Cochet: in vantaggio 6-2 6-4 5-1, perse 17 punti di fila e il match. A Forest Hills nel ’20 vinse la finale dopo che un aereo si era schiantato a 100 metri dalle tribune, in Davis le sue battaglie con i moschettieri francesi si alternarono alla faida con la federazione americana. Nel ’28 fu escluso dalla finale di Davis perché si faceva pagare per scrivere sui giornali, ma Bill riuscì a montare a tal punto l’opinione pubblica che l’ambasciatore americano a Parigi, Myron Merrick, fu costretto a riammetterlo d’imperio in squadra. Non era bello Big Bill, vestiva con impossibili maglioni di lana sfrangiata, vecchie polo sudicie e impermeabili troppo grandi, eppure stregava chiunque, soprattutto i suoi giovani pupilli. Si sentiva uno dello show biz. Fu amico di Douglas Fairbanks, del re Alfonso di Spagna, di Noel Coward, Greta Garbo, Mary Pickford, Betty Grable. Lo si trovava spesso sul campo personale di Charlie Chaplin, ospite della villa di Joseph Cotten a Santa Monica. Passato professionista, da giocatore-organizzatore trasformò il tennis in business, riempiendo stadi e prime pagine. Come attore, però, era un cane. Fu ingaggiato per un paio di pellicole mute dalla Warner Bros, a Broadway recitò in qualche commedia e ne scrisse una, «New Shoes». Disastri. Il ruolo più riuscito, secondo i colleghi, fu quello di Dracula, in una piece che girò per 16 settimane in piazze di provincia. La sua omosessualità soft durante gli anni d’oro era rimasta sottotraccia, ma divenne un problema nella decadenza. Nel ’46 fu arrestato e poi rilasciato dopo un’avventura con un gigolò minorenne, nel ’49 fu condannato a 10 mesi per essersi intrattenuto con un 16enne. Davanti al giudice che lo rampognava («lei non è più un campione, Mr Tilden, lei è un pederasta») non mentì mai per discolparsi: «Sarebbe come voler vincere una partita rubando i punti», sosteneva. Nel 1953, a 60 anni, una trombosi lo stroncò. Da tempo molti tennis club avevano preso a negargli l’accesso, quasi tutti i suoi vecchi amici, tranne Chaplin, lo avevano abbandonato. Della fortuna accumulata con la sua arte gli rimanevano 88 dollari e 11 cents, qualche vestito da sera, e una improbabile collezione di racchette e vecchi maglioni da tennis. Stefano Semeraro