Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  ottobre 14 Martedì calendario

La Stampa, lunedì 13 ottobre BHUBANESWAR (ORISSA). L’altare di St. Vincent è uno scheletro carbonizzato

La Stampa, lunedì 13 ottobre BHUBANESWAR (ORISSA). L’altare di St. Vincent è uno scheletro carbonizzato. In terra ci sono un crocifisso spezzato in due, brandelli di paramenti sacri laceri, la foto accartocciata di Papa Ratzinger. Enormi foglie di banano penetrano dalle finestre senza vetri. passato un mese e mezzo da quando la furia induista si è abbattuta sulla piccola chiesa di Brahmunigaon, ai margini del distretto di Kandahmal, in Orissa. «Fino a qualche giorno fa c’era puzzo di bruciato, le braci ardevano qua e là», racconta l’avvocato Bibhu Dutta Das. uno dei pochi ad aver accesso a questo villaggio isolato dal coprifuoco e pattugliato da alcune decine di soldati governativi. I cristiani sono fuggiti, dispersi nei 15 campi profughi che i volontari hanno allestito nella regione. «Era tutto organizzato da tempo, la violenza, i roghi», continua Dutta Das, legale delle vittime. Sin da quando, nel 1993, le milizie fondamentaliste indù Bajrang Dal e Rashtriya Swayamsevak Sangh, i due maggiori gruppi armati della destra ultranazionalista Sangh Parivar, assaltavano le madrasse, le scuole coraniche del Gujarat, al grido di «Pahle kassai, phir issai», prima i musulmani e poi i cristiani. Le strade sono sterrate e deserte. Ci vuole almeno un’ora e mezza per percorrere un tratto di 20 chilometri, serpentine spettrali controllate ora dagli uomini con il trishuls, il tridente dipinto in mezzo alla fronte. Il tragitto per Berhampur è accompagnato da capanne e chioschi di succhi di frutta. Qui, nel cuore profondo della locomotiva indiana con tassi di crescita del 9 per cento l’anno, una famiglia su due vive con un paio di dollari al giorno. «Quelli che ci hanno attaccato la notte del 25 agosto erano braccianti, gente ancora più povera di noi, indottrinati dai politici e accecati dal ganja, l’oppio locale», dice Sumonta Nike, insegnante di 34 anni ricoverata nel campo profughi di Cuttack con una cicatrice lunga un palmo in mezzo ai capelli neri e lucidi. Secondo uno studio di Angana Chatterji, docente di antropologia all’Institute of Integral Studies di San Francisco, negli ultimi sei anni almeno 15 mila villaggi sono passati sotto l’influenza del Sangh Parivar che ha sfruttato l’emergenza seguita al ciclone del ”99. Oggi, nel loro venticinquesimo anniversario, i Bajrang Dal contano un milione e 300 mila paramilitari. Una potenza che il fondatore, Vinay Katiyar, consiglia di non sfidare: «Se il Congresso ci mette fuori legge ne vedrà delle belle». «Sono terroristi, terroristi indù» commenta padre Ram Ramakrishn, paragonando le milizie del Sangh Parivar agli uomini dello Student Islamic Movement of India (SIMI), gli integralisti islamici responsabili delle 5 bombe esplose un mese fa a Delhi. Nel suo ufficio, a pochi passi dalla diocesi di Bhubaneswar, padre Ram, camicia coreana e jeans, raccoglie testimonianze e documenti dei precedenti di violenza contro i cristiani d’Orissa: 79 episodi dal 1967 a oggi, quasi due all’anno. La prova, sostiene il missionario, di «una strategia sempre più sofisticata». Un’inchiesta del settimanale Outlook rivela «il percorso formativo» dei fondamentalisti indù che, pare, studierebbero proprio i metodi dello jihadismo indiano. L’altra faccia della guerra santa contemporanea, nonostante, osserva l’analista Sevanti Ninan, «i media usino un linguaggio forte solo quando si tratta di qaedismo». Rashtra e bhaktas, nazione e religione, come rivendica il coordinatore dei Bajrang Dal, Prakash Sharma. Ma il giornalista e ideologo di destra Swapan Das Gupta rifiuta il parallelo: «Accostare i Bajrang Dal al SIMI è come confondere una pistola ad acqua con l’Ak47, gli scontri in Orissa non hanno nulla a che vedere con il terrorismo». «Sono indù e mi vergogno di quanto sta accadendo», ammette sottovoce Venketesh, un ambulante che vende candele e incensi davanti al tempio di Rameswai, a Bhubaneswar. «Ma non lo scriva», aggiunge guardandosi intorno. Il figlio adolescente frequenta una scuola cristiana a pochi passi da qui. Secondo un sondaggio del centro di ricerca Gfk il 69 per cento degli indiani vorrebbe la messa al bando dei Bajrang Dal. Qui la paura mangia l’anima. Se il Congresso guidato da Sonia Gandhi temporeggia in vista delle elezioni del prossimo anno e rinvia l’applicazione dell’articolo 356, che prevede le dimissioni d’ufficio di un governo federale fallimentare, Venketesh fa spallucce e torna alle sue candele. Abinash ha 8 anni, il braccio sinistro rotto, la fronte fasciata come la madre Sumika. Tiene stretto in mano un libro di fiabe, «Noah’s Ark». Abinash e Sumika sono fuggiti tre settimane fa da G. Udayagiri, nel cuore di Kandahmal, e hanno trovato rifugio dallo zio Teesta che abita a Samantapuri, un quartiere periferico della capitale. Dalle finestre aperte arriva la musica di una delle mille «dandiya night», le feste a ritmo della danza tradizionale gujarati «dandiya» che accendono la notte di Bhubaneswar durante la festa di Navaratri. «Fino a vent’anni fa c’erano solo un paio di ricorrenze indù l’anno, ora sono migliaia», osserva Teesta, che viene da una famiglia di falegnami cristiani da tre generazioni. A Natale qualcuno ha lanciato sassi contro le sue finestre: «Erano i giorni in cui cominciavano a circolare volantini dell’Hindutva contro le conversioni forzate al cristianesimo, una bugia bella e buona». La National Commission for Minorities ha appena rilasciato un rapporto sul proselitismo coatto: dopo mesi di ricerche non ha trovato neppure un caso. Domenica 12 ottobre il vescovo di Bhubaneswar, padre Raphael Cheenath, segue in tv la canonizzazione di suor Anna Muttathupadathu, la prima santa indiana: «Una buona notizia anche per Kandahmal, una luce che si accende sulla nostra situazione». Una settimana fa il primo ministro Manmohan Singh, di ritorno da una visita ufficiale in Europa, ha ammesso che «l’Orissa è la vergogna dell’India». L’eco delle sue parole arriva afono qui, a pochi passi dall’arcivescovato, dove un uomo sulla quarantina, camicia indiana pangjabi e sandali come un missionario, chiede 30 rupie, mezzo euro, per la dea Puja e rilascia una ricevuta con la bandiera triangolare rossa, vessillo del Sangh Parivar. Francesca Paci