Paolo Valentino, Corriere della Sera 12/10/2008, pagina 12., 12 ottobre 2008
Corriere della Sera, domenica 12 ottobre A chi non è venuto qualche volta in testa, passando per Piazza Venezia, di pensarla senza quella specie di torta nuziale che è l’Altare della Patria? E chissà quante volte, passeggiando per i giardini del Lussemburgo, un parigino abbia desiderato veder sparire il profilo minaccioso della Tour Montparnasse, il grattacielo che si staglia in lontananza
Corriere della Sera, domenica 12 ottobre A chi non è venuto qualche volta in testa, passando per Piazza Venezia, di pensarla senza quella specie di torta nuziale che è l’Altare della Patria? E chissà quante volte, passeggiando per i giardini del Lussemburgo, un parigino abbia desiderato veder sparire il profilo minaccioso della Tour Montparnasse, il grattacielo che si staglia in lontananza. Benché abbia poco più di dieci anni di vita, molti londinesi vedrebbero volentieri sparire l’inutile profilo del Millennium Dome. Anche a Berlino, posto dove non ci si pensa più tanto a muovere le ruspe, si discute da tempo se abbattere l’orrendo tartarugone della Messe, l’edificio in metallo con cui alla fine degli Anni Settanta venne ampliata l’area della fiera. Che fare con le architetture brutte? Come comportarsi con gli orrori edilizi, che anche la più maestosa delle metropoli alberga nel suo cuore pulsante? Nicolai Ouroussoff, urticante critico architettonico del New York Times, un’idea semplice e forte ce l’ha. «Abbattiamole», ha scritto senza troppi giri di parole sul quotidiano newyorkese. « vero, la città è vicino alla bancarotta. Ma anche con Wall Street che contempla la fine e con il blocco della costruzione di nuovi grattacieli di lusso, perché cedere alla disperazione? Invece di piangere su ciò che non possiamo costruire, perché non concentriamo le nostre energie nel buttar giù le strutture che non solo non ci danno gioia, ma ci mettono anche di cattivo umore?». Una provocazione, naturalmente. Ma non priva di senso. Anche perché Ouroussoff, nello stilare la sua lista di proscrizione edile, ha cura di spiegare che il criterio della scelta non è solo quello estetico, «la bruttezza non basta». Nel centro del suo mirino sono piuttosto edifici che a suo parere nuocciono alla città, hanno su New York «un effetto traumatico, mostrano un completo disprezzo per ciò che vi è intorno o distruggono una bella visuale ». Rimuoverli «farebbe respirare lo spirito e aprire nuove possibilità immaginative». per questo che, pur non amandolo, il critico risparmia l’ex grattacielo Pan Am, oggi MetLife, uno degli oggetti più invisi ai newyorkesi, che incombe su Park Avenue come un’incudine bloccando un’antica prospettiva del Grand Central Terminal: «Potremmo restaurarlo», concede magnanimo. In compenso, Ouroussoff non ha pietà per il Madison Square Garden e la sottostante Pennsylvania Station, che aprono il suo catalogo: «Uno degli spazi più disumanizzanti della città: un dedalo di angusti corridoi e sale d’attesa seppellite sotto il mostruoso tamburo del Garden». Le molte proposte formulate negli anni per migliorare lo snodo ferroviario, realizzando una nuova entrata, sono rimaste senza seguito. La lezione? Demolite il Garden e fate della stazione «l’ingresso monumentale alla città del Ventunesimo secolo». La lista continua con il Trump Place, grattacielo di lusso nell’Upper West Side di proprietà del paperone palazzinaro Donald Trump: «Un contributo miserabile a un’area che avrebbe bisogno di essere risanata, attraente come una barriera per il pedaggio autostradale. Ricorda l’edilizia popolare sovietica». Fra le vittime sacrificali, anche l’Annenberg Building del Mount Sinai Medical Center, più simile a una «fortezza militare o alla sede di un’agenzia spionistica, che a un ospedale»; lo Jacob K. Javits Convention Center, che pure ha tra i suoi autori il maestro I.M. Pei; il grattacielo Verizon ex AT&T su Pearl Street e l’ex Galeria d’Arte Moderna, ora restaurata e riconvertita in Museum of Arts and Design, su Columbus Circus. «Ma chi stabilisce quale sia un edificio brutto e quale no?», si chiede l’architetto milanese Mauro Galantino, recente vincitore del concorso per il nuovo ingresso di Venezia, secondo il quale «le città sono un palinsesto che dura nel tempo e non si può sottoporle a referendum ». fin troppo facile, in altre, individuare un capro espiatorio e proporne la demolizione. Ma «la lista maccartista dei cattivi non va affatto bene». Galantino fa un esempio italiano: « chiaro che Punta Perotti andava demolita, ma quell’atto non può essere la catarsi che ci permette di ignorare il degrado urbanistico di Bari. Lo stesso vale per Palermo, Napoli e altre città». A suo avviso, bisognerebbe rovesciare il ragionamento: «Non dieci cose da demolire per demolirle, ma dieci idee forti per valorizzare e riqualificare i luoghi dove sorgono. Allora quegli oggetti cadrebbero da soli». A New York, per esempio «la priorità non è disfarsi del Madison Square Garden, ma è la riconquista dell’acqua da parte di una città che tocca l’acqua ma non la usa, rimanendo isolata sia dall’Hudson che dal-l’East River». Paolo Valentino