Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 12/10/2008, pagina 3, 12 ottobre 2008
Corriere della Sera, domenica 12 ottobre Hanoi. «Era una guardia appena arrivata. Quando seppe che nella cella 13, ala Ovest, c’era un pilota abbattuto mentre bombardava Hanoi, e soprattutto figlio dell’ammiraglio che comandava la guerra per mare e per cielo contro il nostro Paese, la recluta sputò nel piatto di riso prima di portarglielo
Corriere della Sera, domenica 12 ottobre Hanoi. «Era una guardia appena arrivata. Quando seppe che nella cella 13, ala Ovest, c’era un pilota abbattuto mentre bombardava Hanoi, e soprattutto figlio dell’ammiraglio che comandava la guerra per mare e per cielo contro il nostro Paese, la recluta sputò nel piatto di riso prima di portarglielo. Come comandante della guardia carceraria, l’ho rimproverato aspramente. Quel pilota era nostro prigioniero, affidato alla mia tutela. Doveva essere trattato con durezza, ma con rispetto». Quel pilota era McCain, e il suo carceriere è un uomo di 75 anni, tre più di lui. Vive a duecento metri dall’Hoa Lo, che gli americani chiamavano con ironia Hanoi Hilton: la prigione. Casa al primo piano, scala buia, toilette sul ballatoio. Piedi nudi sul pavimento di legno, vecchie foto in divisa, una Tour Eiffel di plastica sul tv color, la sola cosa che abbia meno di quarant’anni. la prima volta che racconta questa storia. «Mi chiamo Nguyen Tien Tran, sono nato il 18 maggio 1933, e ho servito per quarant’anni nell’esercito vietnamita. Il 26 ottobre 1967 presi in custodia il capitano della Marina americana John Sidney McCain, appena ripescato dal lago Truch Bach, un chilometro a nord da qui. Non era certo il primo; ma non ne avevo mai visto uno così malridotto. Braccia rotte, ginocchio destro a pezzi. Gli demmo da mangiare e da bere; vomitò tutto. Delirò per l’intera notte. Il mattino dopo lo portammo all’ospedale 108, quello dei militari, dove fu operato e rimase un mese. Io non lo perdevo mai di vista, talora non tornavo a casa neppure la notte e dormivo nella stanza a fianco: temevo che un medico o un infermiere potesse fargli del male. E noi non volevamo che morisse; ci siamo accorti quasi subito che era figlio e nipote di due grandi ammiragli americani. Ero il responsabile del suo caso: dovevo sorvegliarlo da vicino e, appena possibile, interrogarlo. Compito che ho svolto per cinque anni e mezzo ». Fin dall’inizio, le due storie divergono. McCain scrive di essere rimasto abbandonato per quattro giorni, che i vietnamiti per curarlo volevano sapere «tipo d’aereo, obiettivi futuri, e altri particolari di ogni sorta». Portiamo a Nguyen Tien Tran l’autobiografia del suo prigioniero, Faith of My Fathers. Lui nota subito che «adesso si firma solo John, ma una volta insisteva: ”Mi chiamo John Sidney McCain”». Poi si prende mezza giornata per leggere i capitoli sulla cattività a Hanoi, e replicare. «Non è andata così. Noi non abbiamo mai torturato McCain. Al contrario: gli abbiamo salvato la vita, curandolo con medicine preziosissime che talora mancavano ai nostri feriti. L’aereo l’avevamo abbattuto, i suoi bersagli erano chiarissimi, il suo nome era scritto sulla piastrina di riconoscimento. Se non l’avessimo curato subito, sarebbe morto. Non è vero che tentò il suicidio; non aveva l’aria di voler morire, accettava il cibo, chiedeva le medicine; e poi era un tipo ambizioso, che si aspettava molto dalla vita. Non è vero che venne il generale Giap a visitarlo; Giap per noi era ed è un mito, il vincitore di Dien Bien Phu, se fosse venuto me ne ricorderei. Non è vero che McCain elencò la linea d’attacco della squadra dei Packers per non dare i nomi dei compagni: è un’informazione che non ci serviva e non gli abbiamo chiesto. Non è vero che per ingannarci parlava di missioni in Antartide e disegnava portaerei con piscine a bordo. McCain sapeva che non eravamo stupidi e non aveva voglia di scherzare: gli interrogatori erano molto seri, e pure lui lo era. Quel che ci interessava era persuaderlo che la guerra americana fosse sbagliata e criminale. E alla fine la confessione l’ha firmata. Si era reso conto delle condizioni, e le aveva accettate. Anche se negli interrogatori non ha mai ammesso di essere nel torto. Diceva che lui aveva fatto una guerra pulita, dal cielo. E ha ripetuto, sino all’ultimo, che la guerra per lui era giusta». Le parole del carceriere non implicano che McCain abbia drammatizzato il racconto della prigionia. probabile che sia Nguyen Tien Tran ad attenuarlo (pur se la sua versione coincide con quella del direttore dell’Hanoi Hilton, Tran Trong Duyet, 75 anni, che siamo andati a trovare nella sua casa di Hai Phong). Di certo, i vietnamiti volevano McCain vivo, per servirsi di lui; e lui non glielo consentì. Il 4 luglio 1968 al padre ammiraglio era stato affidato il comando della guerra, accanto al generale Westmoreland. Il figlio poteva essere una formidabile arma di propaganda, su cui esercitare una determinata pressione. Tra il prigioniero e la sua guardia era cominciato una sorta di duello, che non è mai finito. «Riconosco che le condizioni erano dure, anche se non disumane. McCain è rimasto in isolamento molto a lungo. Ma non è colpa mia se lui tentava in ogni modo di comunicare, così: toc-toc», e qui Nguyen Tien Tran picchia con il dito sulle pareti sottili della sua casa. «Allora lo portammo in una cella che non confinava con le altre. All’inizio dovevamo assolutamente evitare i contatti tra i prigionieri, per impedire che si mettessero d’accordo, che elaborassero un comportamento comune. Uscito dall’ospedale, McCain fu portato alla Cinemateca, il carcere che gli americani chiamavano Plantation. Nella cella c’erano una branda, un bugliolo con coperchio, una coperta. La luce era accesa 24 ore su 24, ma non era un neon troppo fastidioso. Nessuna finestra, ovvio. Sempre una guardia fuori». McCain ha raccontato di aver ucciso quattrocento zanzare in un giorno. «In effetti in Vietnam abbiamo molte zanzare. La giornata cominciava alle 5 e mezza, con il gong che annunciava la colazione. Ai prigionieri veniva dato un pane e dello zucchero. Alle 11 c’era il pranzo, sempre preceduto dal gong: una zuppa di zucca con del grasso. Alle 5 di pomeriggio la cena, una ciotola di riso con carne. L’amministrazione del carcere calcolò che ogni pasto dei prigionieri ci costava un dong e sessanta, più del doppio del pasto di una guardia. Pensavamo che gli americani erano abituati a mangiare di più. I primi tempi, niente pacchi o lettere, niente giornali. Non potevano arrivare notizie dall’esterno, neppure l’elezione di Nixon o lo sbarco sulla Luna, se non quelle che davamo noi con gli altoparlanti: le nostre vittorie, l’elenco dei loro caduti. Distribuivamo i libri di Ho Chi Min tradotti in inglese, e testi di americani contrari alla guerra. Ogni prigioniero aveva diritto a tre sigarette al giorno; ma quando vedemmo che usavano le cartine per scambiarsi messaggi, non ne demmo più». «Interrogavo McCain due volte la settimana, tutte le settimane. In una stanza apposta, abbastanza grande, con la porta blindata e i muri spessi per non far sentire i discorsi. Lui sempre senza manette. Parlavamo in inglese, lingua che ho studiato all’università. Una volta mi disse che ormai, viste le ferite, non avrebbe più potuto volare; la sua carriera militare era finita, ma c’era il tempo per iniziarne un’altra. La carriera politica. A lui il comunismo faceva orrore, io replicavo che in America non era il popolo a scegliere ma i partiti. Si capiva che Johnson non gli piaceva; però uno come lui non avrebbe mai criticato il suo presidente. Sapevo che aveva una moglie e una bambina piccola, ma non ne parlava mai. Ogni tanto affrontavamo la geografia degli Stati Uniti: McCain mi teneva lezioni, io gli dimostravo che un po’ conoscevo il suo Paese, discutevamo della Florida, del Golden Gate. Di donne invece non si parlava; non è nel carattere vietnamita farlo, e lui solo una volta mi ha raccontato delle brasiliane, diceva che sono le più belle del mondo. La sua ossessione era il padre. Ne andava fiero, e aveva paura di non esserne all’altezza ». Chiediamo a Nguyen Tien Tran di accompagnarci a quel che resta dell’Hanoi Hilton, dove McCain arrivò dalla Plantation nel dicembre del ”69. Le guardie, che ora custodiscono un museo, si inchinano al suo passaggio, una le chiede l’autografo. «La cella di McCain non c’è più, e neppure il mio ufficio, che era al piano di sopra. Ecco le fotografie dei suoi amici: Bob Craner, Everett Alvarez, il primo a essere abbattuto. Questo è James Kasler, veterano della guerra di Corea. Lui sì, un vero duro». Perché, McCain no? «Era meno ribelle, più mansueto di quanto racconta. Non è vero che ci insultava; stava attento a comportarsi bene. Non è vero che urlando ci impedì di filmare una messa di Natale in carcere; anzi, una volta venne a una funzione organizzata a Saint-Joseph, la chiesa francese». McCain racconta di un altro Natale, in cui una guardia tracciò una croce nel fango del cortile per dargli modo di pregare. «Questo è assolutamente impossibile. I miei uomini erano tutti atei e comunisti. E stavano combattendo, dal loro posto, una guerra da cui dipendeva la sopravvivenza della patria. Le religioni, per giunta quelle altrui, non ci interessavano. Su una cosa però ha ragione lui: questa tuta da aviatore, esposta nel museo come ”la tuta di McCain”, non è la sua. Era ridotta a brandelli, e la gettammo via». Le foto d’epoca mostrano prigionieri che coltivano piante, farciscono tacchini, giocano a volley e a basket. «A parte il fatto che avevamo la palla da volley ma non quella da basket, McCain non è tra questi. Non stava ancora bene, e poi non era il tipo. La pressione si allentò anche per lui: riceveva pacchi e lettere, ovviamente dopo che erano stati controllati da noi; aveva in cella spazzolino, dentifricio e il Vietnam Courier, poteva fare la doccia due volte alla settimana, uscire in cortile ogni pomeriggio per 45 minuti, ascoltare la radio con le nostre musiche patriottiche ma anche vecchie canzoni francesi e di Louis Armstrong. Notai che gli si erano sbiancati i capelli; non per i maltrattamenti, che non ci furono; è che in prigione si pensa troppo. E per lui la prigione era la strada per essere degno del padre e del nonno, e per cominciare la carriera politica. Certo era una forte personalità, e ha dimostrato una certa tenuta. McCain è un eroe americano, di un Paese che in Vietnam ha perso 58 mila uomini. Ma per noi, che ne abbiamo persi tre milioni, McCain è una persona scorretta, e anche un po’ ingrata. Chi vorrei presidente tra lui e Obama? un discorso che non mi riguarda e non mi interessa. Il passato non c’entra. Scelga l’America l’uomo che la porti fuori dall’Iraq e la tenga lontana dalle guerre. McCain la guerra la conosce, quindi credo non la ami». «Gli ultimi giorni di prigionia furono terribili, stavolta per noi. Tra la fine del ’72 e l’inizio del ’73 subimmo i bombardamenti più duri. Ricordo che portammo McCain a Duc Giang, alla periferia Nord di Hanoi, a vedere le distruzioni e i morti. Al momento di liberarli, radunammo i prigionieri in cortile. A tutti demmo un paio di scarpe e una divisa». Era il 14 marzo 1973. «A McCain dissi di ricordarsi che lui era stato preso mentre bombardava la nostra capitale, e ci doveva la vita: ”Torna in Vietnam, ma stavolta in pace”». E lui cosa rispose? «Nulla. Andò via senza una parola, ma stringendo la mano a quanti di noi considerava ormai amici». E a lei diede la mano? «No. A me no». Aldo Cazzullo