Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  ottobre 14 Martedì calendario

Metti assieme ambizione americana e arrivismo ebraico, eppoi il revanscismo di un martire della Grande Depressione degli anni Trenta, alla fame di vita di un convalescente che da bambino ha rischiato più volte la pelle, e avrai appena la parodia del desiderio di farcela che animò Saul Bellow per tutta la vita

Metti assieme ambizione americana e arrivismo ebraico, eppoi il revanscismo di un martire della Grande Depressione degli anni Trenta, alla fame di vita di un convalescente che da bambino ha rischiato più volte la pelle, e avrai appena la parodia del desiderio di farcela che animò Saul Bellow per tutta la vita. E quando dico «farcela» intendo, a scanso di ipocrisie, «avere successo»: quel successo che i letterati europei guardano con sufficienza (salvo poi starsene lì a spettegolare sull’anticipo ottenuto e a fantasticare sul Nobel da vincere). A tale proposito, mi viene in mente una considerazione scappata a Francis Scott Fitzgerald nel crack-up: il problema del successo ottenuto da giovane è che ti illude che la vita sia «una faccenda romantica». (Fitzgerald versò un mucchio di interessi a quel destino che lo aveva troppo precocemente consacrato). Tanto vale allora essere carezzati dalla fama quando mezzo secolo di tribolazioni ti hanno insegnato a considerare la vita una «faccenda» priva di scopo. Cioè all’età in cui Bellow fece Bingo. Un Bingo che, benché scrupolosamente preparato, arrecò al beneficiario imprevedibili grattacapi. Bellow aveva già dimostrato di essere un genio con La resa dei conti, Il re della pioggia, Augie March. Ma inAmerica c’era ancora troppa gente a non essersene accorta. L’entusiasmo accademico suscitato da quei libri (tra i suoi fan gente del calibro di Edmund Wilson e Alfred Kazin) non bastava a un tipo che sapeva come funziona il mondo e che sentiva di doversi riscattare agli occhi dei suoi fratelli milionari. Herzog fece il miracolo: trasformando un intellettuale depresso nel gentleman con ciuffo bianco, turgido papillon, carnose labbra alla Gary Cooper, quale lo ritrae la foto del secondo e ultimo Meridiano Mondadori a lui dedicato. Un tipo che immagini nella suite d’un albergo di Washington mentre indossa la giacca dello smoking per una cena alla Casa Bianca. Non vi intratterrei con queste facezie biografiche se non fossi convinto che tale questione del successo o dell’insuccesso, calata in un contesto competitivo come quello americano, abbia un’importanza capitale nell’opera di Bellow, e che proprio per via della fortuna commerciale di Herzog acquisti rilevanza ulteriore. C’è da dire che Bellow appartiene al club di romanzieri che non sanno fare altro che scrivere di sé (del tutto contrario a quello assai più esclusivo composto da autentici fuoriserie – Dante, Shakespeare, Tolstoj – che sanno scrivere pressoché di tutto e di tutti). Ed ecco perché il successo di pubblico cambia anche le sue esigenze di scrittore. Se i libri precedenti a Herzog hanno documentato (a tratti in maniera persino vittimistica) il senso di delusione che accompagna il fallimento, i libri successivi si concentrano sulle complicazioni di un uomo che, avendo raggiunto un’onorata celebrità, si ferma a contemplare le macerie che si è lasciato dietro: amici calpestati, mogli tradite, figli incompresi e maltrattati. Per non parlare della vergogna di non esserti occupato a tempo pieno del solo evento rilevante che sia capitato alla tua gente: il genocidio. Ed ecco spiegato perché il dopo Herzog sia caratterizzato da una svolta riflessiva e moralista. Sapete, gli scrittori usano le storie per sedurre il pubblico. Una volta che ci sono riusciti, abbassano la guardia, abbandonandosi alla cosa che più li fa felici: filosofeggiare. E se questo, nella maggior parte dei casi, si rivela un disastro, per Bellow rappresenta una vera e propria fioritura artistica. Che forse non avrà giovato alla sua fortuna presso il pubblico, visto che ancora oggi tutti lo acclamano ma pochi lo leggono, e visto che i lettori affamati di storie lo trovano inguaribilmente noioso, ma che certamente lo ha reso il più importante scrittore di lingua inglese del secondo dopoguerra (gli fa compagnia Vladimir Nabokov: tra l’altro i due si detestavano senza alcuna cordialità). Da lettore vecchio stampo, confesso che non mi stancherei mai di rileggerlo. Forse perché trovo la vita interiore e il caleidoscopio sociale più avvincenti di qualsiasi rapina sventata od omicidio risolto. O forse perché adoro la metamorfosi che trasformò il monellaccio chicaghese nel nouveau philosophe delle lettere americane. In fondo, lui era il primo a ritenersi un uomo del XVIII secolo: «Io penso talvolta che il mio senso del comico è più vicino al 1776 che non al 1976». Come altro definire altrimenti quel gusto diderottiano per la divagazione semiseria? Ma una domanda resta inespressa: su cosa rimugina tanto il vecchio Saul? Soprattutto sulla follia cui conduce il lavoro intellettuale nell’epoca del capitalismo avanzato. Una follia competitiva che può distruggerti. Non a caso la prima frase che Herzog, in perfetta malafede, rivolge a se stesso recita: «Se sono matto, per me va benissimo». La verità è che la follia gli fa paura. Perché, per principio, la follia è irragionevole: e quindi iniqua, depravata, sanguinaria, terrorizzante... Come sa bene anche Arthur, il protagonista de Il pianeta di Mr Sammler, vecchio ebreo polacco che, scampato al massacro nazista per il rotto della cuffia, si ritrova a dover fronteggiare la «follia sessuale » (così la definisce) che ha invaso l’America alla fine degli anni Sessanta (utile ricordare che Bellow a suo modo era un irredimibile puritano). E come sa ancor meglio Charlie Citrine, l’ennesimo alter ego di Bellow, che ne Il dono di Humboldt, contempla con raccapriccio la caduta nel fango della follia del suo mentore Von Humboldt Fleisher. Citrine sa che la ragione dell’impazzimento dell’amico ha di nuovo a che fare con la natura disgraziatamente effimera del successo conseguito dal giovane Humboldt con le sue liriche rivoluzionarie. E come non bastasse, dal fatto che il declino della sua stella sia coinciso con il trionfo conquistato dalle opere teatrali del suo pupillo che hanno fruttato a Citrine un milione di dollari: cifra che Humboldt non può perdonargli. Bellow è un fuoriclasse nel mostrarci come quel milione di dollari abbia fatto più male a Humboldt di quanto non abbia giovato a Citrine. Quel milione ha condotto Humboldt in manicomio. Reazione esagerata certo, ma tipica di chi, oltre a dover accettare la propria sconfitta, deve fronteggiare il successo di un caro amico. E infine c’è Ravelstein, l’ultimo eroe bellowiano: che incontriamo proprio nel momento in cui un suo libro è diventato un inatteso bestseller internazionale. «Il suo intelletto – commenta divertito il Narratore – lo aveva reso milionario. Non è una cosa da poco diventare ricchi e famosi dicendo esattamente quello che pensi». Sì, in effetti non è cosa da poco, ma anch’essa può rivelarsi una disgrazia. Soprattutto se non hai studiato da uomo ricco e famoso ma più che altro in polverose biblioteche. Anche per Ravelstein sembra non esserci scampo. Il tenore di vita imprudentemente vitalistico intrapreso grazie al faraonico conto in banca che si è ritrovato lo sta per uccidere. Sapete, negli ultimi anni, mi sono più volte imbattuto in scrittori di immenso successo e in altri di non meno irredimibile insuccesso. Non me ne ricordo uno che non fosse sull’orlo di un collasso emotivo. L’eccesso di esposizione aveva fatto impazzire i primi non meno di quanto l’invisibilità avesse annichilito i secondi. Il che mi ha sempre riportato a Saul Bellow: il più capitalista, il più balzacchiano, il più competitivo di tutti gli scrittori americani, che aveva con il capitalismo un’irrisolta controversia (da trotzkista a neoconservatore). E che forse avrebbe saputo raccontare la crisi finanziaria in atto con il distacco di chi – svezzato dal latte acido del New Deal roosveltiano, e avendo visto un mucchio di amici stroncati dalla smania di affermazione – sa misurare il valore del denaro, ma anche la sua dannata vischiosissima inutilità. Alessandro Piperno