Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 14/10/2008, pagina 11, 14 ottobre 2008
Ve lo immaginate cosa sarebbe oggi il Piemonte con quasi due milioni di abitanti in meno? Cosa sarebbero Torino, le Langhe, le campagne vercellesi? Certo, gli anziani abitanti saprebbero cantare certe canzoni di Gipo Farassino con tutti gli accenti giusti: «Ciau Turin, mia bela tera, / che tristessa, che pensé…» E magari i più colti potrebbero recuperare le poesie di Angelo Brofferio e lanciarsi con accorato sentimento ne «I bogianen»: «Lo san s’al é nen vera / Guastalla e San Quintin, / Pastreng, Goito, Peschiera / Palestro e San Martin
Ve lo immaginate cosa sarebbe oggi il Piemonte con quasi due milioni di abitanti in meno? Cosa sarebbero Torino, le Langhe, le campagne vercellesi? Certo, gli anziani abitanti saprebbero cantare certe canzoni di Gipo Farassino con tutti gli accenti giusti: «Ciau Turin, mia bela tera, / che tristessa, che pensé…» E magari i più colti potrebbero recuperare le poesie di Angelo Brofferio e lanciarsi con accorato sentimento ne «I bogianen»: «Lo san s’al é nen vera / Guastalla e San Quintin, / Pastreng, Goito, Peschiera / Palestro e San Martin. / Gëneuria farisea, / veule accertev ne ben? / Lo san fin a ’n Crimea / che noi bogioma nen». Ma sarebbe un Piemonte vecchio. Spopolato. Economicamente ammaccato. Raggrinzito. Senza l’immigrazione di veneti e pugliesi, calabresi e romagnoli, Torino e la sua regione, coi tassi di natalità di questi ultimi decenni, avrebbero oggi solo il 56% degli abitanti attuali. E non avrebbero conosciuto il boom economico che intorno alla Fiat strappò i piemontesi al loro destino secolare di emigrazione (un milione e mezzo di esodi tra la crisi contadina di fine Ottocento e il 1915) e di povertà, che fino a pochi decenni fa aveva visto la val Cannobina vendere bimbi agli spazzacamini. Fu una rivoluzione, quella immigrazione dalle altre regioni italiane. Una rivoluzione anche traumatica, con quei cartelli «non si affitta a meridionali». Ma consentì all’antica capitale d’Italia e alle sue terre di rinnovarsi, di trovare una nuova spinta, di rinascere grazie a nuovi torinesi che di cognome facevano Zanon e Musumeci, Trapani e Scapin. Torinesi trevisani come il cardinale Severino Poletto, figlio di contadini immigrati da Salgaredo. Torinesi romani come lo scrittore torinesissimo Carlo Fruttero. Torinesi friulani come il sindaco Valentino Castellani. Torinesi salernitani come gli storici Nicola Tranfaglia o Giovanni De Luna, che coltiva la piemontesità come fosse nato sotto i portici del caffè Neuv Caval ’d Brôns. Vale per il Piemonte, vale per l’intero Nord-Ovest. Che senza immigrazione e coi tassi di natalità di qualche anno fa avrebbe oggi dieci invece di quindici milioni di abitanti. E uno su tre (invece che poco più di uno su quattro) avrebbe oltre 60 anni e peserebbe come un macigno sulla ricchezza, l’efficienza, la rete di garanzie sociali di quella che è l’area più ricca d’Italia. Certi numeri non lasciano scampo: col nostro tasso di natalità del 1995 (1,19 figli a donna) una popolazione si dimezza in 38 anni. E questo, senza i nuovi arrivi, sarebbe stato probabilmente il destino di noi italiani. Il tema del saggio in uscita nelle librerie di Francesco Billari e Gianpiero Dalla Zuanna è questo: la realtà va guardata così com’è. E descritta senza sconti. Senza rimpianti. Senza invettive ideologiche. Senza schemini. Nel tentativo di capire davvero cosa sta succedendo. Per fare i conti sul serio (compresi i rischi che si corrono e le cose che si devono fare) con il panorama demografico che via via si è delineato anche a dispetto delle previsioni degli stessi demografi. Ma certo, lo sanno anche loro che spesso le proiezioni sono scritte sulla sabbia e i numeri in questo campo vanno presi con le pinze, come dimostrano i calcoli sulla evoluzione della popolazione italiana fatti dalla stessa la Divisione per la Popolazione dell’Onu. Per non dire dell’Istat, che nel 1988, anche a causa della diffusa riluttanza a mettere nel conto anche gli stranieri non solo clandestini ma perfino regolari, «previde per l’inizio del 2008 appena 57 milioni e 400 mila residenti in Italia, ben due milioni e 700 mila in meno di quelli effettivi, che oggi possiamo contare con certezza». Insomma: se è vero che neppure la matematica è una scienza esatta, guai a fidarsi troppo della demografia. Certe tendenze, però, sono così nette che una classe dirigente seria e responsabile non può non tenerne conto. A partire dal nodo: il problema del declino demografico, in Italia, «non esiste ». E’ in corso, come spiega il titolo «Rivoluzione nella culla», un cambiamento epocale. Ma non c’è più un problema demografico. A meno che, si capisce, non si ragioni in astratto ignorando i «nuovi italiani» e tenendo conto solo di una immaginaria «purezza etnica» di una altrettanto immaginaria «razza italiana». Razza da tenere al riparo da ogni contaminazione «straniera», immigratoria, «impura». Quale «razza», poi? Non sono stati i fruttivendoli pugliesi o le maestre meridionali, come vogliono certe leggende, a «infettare» la purezza del sangue ambrogino: «In occasione del censimento del 1881, gli statistici dell’epoca notarono con stupore che il 52% delle persone residenti a Milano non erano nate a Milano ». Una «purezza» stravolta già centotrenta anni fa! Insomma, da che mondo è mondo sono state le immigrazioni, interne o esterne, ad arricchire ora questo e ora quel paese. E la parola «arricchire» non è una concessione buonista alle tesi sul «meticciato di civiltà (con l’accento sulla parola civiltà)» di uomini come il cardinale veneziano Angelo Scola. E’ successo agli Stati Uniti, al Brasile, all’Australia, all’Argentina, alla Francia… Era terrorizzata la Francia, dopo la sconfitta di Sedan del 1870, dal proprio declino demografico e dalla prorompente fertilità della Germania: «per ogni nato francese nascono due tedeschi!» E chi la risollevò? Leon Gambetta, che rifiutò di firmare il trattato di pace incitando il paese a risollevarsi. Era figlio di un immigrato ligure, Gambetta: ma a nessun francese verrebbe mai in mente che non fosse francese. E lo stesso vale per il pittore Paul Cezanne, che se avesse conservato il nome dei padri si sarebbe chiamato Paolo Cesana perché la sua famiglia veniva dall’omonimo paese piemontese. O per lo scrittore Emile Zola, di origine trevisana. E giù giù, fino ai giorni nostri, a nessun francese verrebbe in mente che Nicolas Sarkozy, figlio di un immigrato ungherese (benestante, ma immigrato) non sia francese. Come a nessun americano è mai passato per la testa che non fossero americani Frank Capra o Joe Di Maggio, Frank Sinatra o Angelo Rossi e Fiorello La Guardia, i sindaci più amati di San Francisco e New York, nonostante quei nomi irreparabilmente italiani. Certo, un’immigrazione massiccia, tumultuosa e inaspettata come quella che per anni ha quotidianamente colto di sorpresa l’Italia, va gestita. E il libro di memorie «All’ombra della libertà» di Edoardo Corsi, nominato nel 1931 direttore di Ellis Island dove era sbarcato bambino, spiega come occorrano insieme rispetto e mano ferma, pietas e durezza nell’applicazione della legge. Massima severità con chi spaccia, chi rapina, chi delinque. Ma sprecare la risorsa immensa dell’immigrazione, vedendola solo come fonte di problemi, sarebbe un delitto. Ed è qui che il lavoro dei due demografi si rivela un pozzo prezioso di numeri e dettagli e collegamenti e rivelazioni da cui attingere per capire «come» vivere questi anni di forte immigrazione. Così da rovesciare tutto: l’irruzione di forze per la gran parte giovani, fresche, motivate, non va subita. Va colta come un’opportunità di cui approfittare. E non solo perché, per non impoverirci, arretrare, rassegnarci al declino abbiamo bisogno di trecentomila nuovi arrivi l’anno. Ma perché proprio questa scossa può aiutarci a interrompere un progressivo «affaticamento» della società italiana, sempre più anziana, stanca, pessimista. O addirittura rassegnata. Vale per il Sud dove, al contrario di quanto dice un luogo comune sulle donne meridionali che fanno più figli, c’è il più pericoloso punto di crisi. Vale per il Veneto, dove secondo il rapporto di Bruno Anastasia di «Veneto Lavoro» (dossier con prefazione di Giancarlo Galan, che guida una giunta dove svetta la Lega) servono 20 mila nuovi immigrati l’anno per mantenere i livelli di oggi. C’è chi dice: «Pochi ma buoni»? Può darsi. Purché chi lo teorizza sia disposto a perdere pezzi del suo benessere e ritornare un po’ più povero. Lo è davvero? Mah… Gian Antonio Stella