Bill Emmott, Corriere della Sera 14/10/2008, pagina 42, 14 ottobre 2008
Ecco un vero progresso. I salvataggi bancari concordati nel fine settimana non rappresentano, con ogni probabilità, la fine della crisi finanziaria ed economica
Ecco un vero progresso. I salvataggi bancari concordati nel fine settimana non rappresentano, con ogni probabilità, la fine della crisi finanziaria ed economica. Ma si può dire con fiducia che quanto è avvenuto ieri in Europa e in America segnala almeno l’inizio della fine. E’ un giudizio che scaturisce dalle stesse cause che sono alla base del panico. Azionisti e istituti di credito si sono affrettati a vendere, o hanno rifiutato di prestare denaro, per timore che decine, forse centinaia di banche e altri istituti si trovassero sull’orlo del fallimento. Come capita spesso in situazioni di estrema incertezza, il panico ha rischiato di rendere possibile una fine di questo genere. Ma non si è trattato di un timore irrazionale. Fintanto che era impossibile prevedere quale fosse il saldo tra le perdite segnalate nei bilanci delle società finanziarie e le riserve, nessuno era in grado di stabilire se i prestiti sarebbero stati ripagati, i depositi restituiti, o se i finanziatori avrebbero nuovamente ottenuto profitti sufficienti da distribuire agli azionisti. Come si è visto durante la crisi bancaria svedese nei primi anni Novanta, e quella giapponese durata l’intero decennio, alla fin fine solo il governo possiede le risorse necessarie a fornire capitale e garanzie per dissipare tali timori. La questione, però, è se il governo trova la volontà politica di mettere in campo tali risorse e se può contare sul sostegno dell’elettorato per farlo. Nel caso del Giappone, mancarono sia la volontà che il sostegno, e questo non fece che prolungare e aggravare la crisi di quel Paese. In quest’ultimo fine settimana, solo 14 mesi dopo le prime avvisaglie dell’ attuale crisi finanziaria, abbiamo le prove della volontà politica di risolverla da parte di un largo ventaglio di governi. E visto l’allarme pubblico sul pericolo di una nuova «Grande Depressione » come quella degli anni Trenta, questa volontà sarà senz’altro sostenuta dall’elettorato. Anche perché non c’è altra scelta. Tuttavia, la ricapitalizzazione delle banche e le garanzie sul debito rappresentano solo l’inizio della fine, non la fine vera e propria della crisi. E il motivo va ricercato sia nella sfera economica che politica. Il motivo economico è che se ci farà scampare quasi certamente al pericolo di una nuova «Grande Depressione », questo salvataggio non impedirà l’instaurarsi di una pesante e dolorosa recessione. L’Europa e il Giappone sono già in recessione e l’America vi si avvicina a grandi passi. La caduta dei prezzi del petrolio e delle materie prime, con il corollario di una minore inflazione e di tassi d’interesse più bassi praticati dalle banche centrali, contribuirà ad attenuare la recessione. E’ tuttavia ancora probabile che il processo sarà pesante e doloroso, proprio per la diffusione del panico cui abbiamo assistito. Il terrore di un crollo totale renderà i ricchi più cauti nello spendere, gli indebitati più cauti nel chiedere nuovi prestiti, e chi presta denaro più cauto nel metterlo a disposizione. La stretta creditizia e il calo dei consumi comporteranno una contrazione della produzione per un lungo periodo di tempo, fino al ritorno della fiducia. E qui si inserisce il motivo politico. La disoccupazione è destinata ad aumentare nell’Eurozona, da livelli già assai alti, mentre salirà rapidamente in America e in Gran Bretagna, rispetto ai bassi tassi goduti sinora. La perdita del posto di lavoro e la riduzione del reddito rischiano sempre di innescare un contraccolpo politico, che potrebbe spingere i governanti ad adottare misure in grado di alleviare i disagi, ma al costo di prolungare la recessione. Di solito questo avviene aumentando la spesa pubblica, e talvolta ricorrendo a barriere doganali. Il salvataggio peraltro lascia spazio, sotto questo aspetto, a un qualche ottimismo. Si è molto discusso del fatto che, come conseguenza della crisi, l’equilibrio tra governo e mercati si sposterà fortemente a favore del governo. In apparenza, questo è vero: i governi sono intervenuti massicciamente, in tutto il mondo industrializzato, entrando nell’azionariato delle banche, e sarà loro compito inasprire i controlli finanziari al termine della bufera. Ma basterà a segnare una svolta, un passaggio a lungo termine verso l’interventismo di Stato? Ne dubito, e per un semplice motivo: l’attuale massiccio intervento del governo si porta dietro un aumento altrettanto massiccio del deficit e del debito pubblici. Debiti che rappresenteranno uno scomodo fardello per i governi, sia in America che in Europa, per molto tempo ancora, a meno che non riescano a convincere l’elettorato ad accettare un inasprimento fiscale. I governi del mondo industrializzato finiranno col condividere la situazione italiana: vorranno mettere in campo molte idee e progetti, ma l’ingente debito pubblico impedirà loro di realizzarli. Bill Emmott