la Repubblica 14/10/2008, pagina 26, 14 ottobre 2008
Lettera. la Repubblica, martedì 14 ottobre Ho 61 anni e sono un medico, specialista in fisiatria, che ha deciso di interrompere volontariamente l’esercizio della professione, per motivi personali
Lettera. la Repubblica, martedì 14 ottobre Ho 61 anni e sono un medico, specialista in fisiatria, che ha deciso di interrompere volontariamente l’esercizio della professione, per motivi personali. Con questa identità di casalinga-medico sono transitata recentemente all’interno di reparti di geriatria e lungodegenza, a fianco di una amata zia 93enne. Ho visto trattare moribondi quasi centenari con la stessa logica terapeutica che si userebbe per un quindicenne sopravvissuto ad un incidente stradale. Alcuni esempi. Signora 74enne con carcinoma epatico in fase terminale. Familiari che attendono con lei la morte ormai annunciata. Madre natura la condurrebbe in coma, ha ammonio e bilirubina molto alti. Eppure viene idratata massicciamente, i parametri migliorano, riprende la diuresi, la signora è più lucida e può avvertire fino in fondo lo strazio della pulizia delle sue piaghe da decubito profonde fino all’osso sacro. Due giorni prima di morire, un’ennesima trasfusione per darle, forse, qualche ora di lucidità. Occuparsi della morte è molto difficile e il mio pensiero non ha nulla a che vedere con l’eutanasia. Sto parlando di differenziare la vita dalla morte. E di usare ogni strategia terapeutica nel primo caso e amore e pietà nel secondo. Basterebbe, forse, farne una questione di razionalizzazione delle risorse, senza tirare in ballo l’etica e la morale che da molto tempo paralizzano ogni tipo di intervento. Basterebbe riuscire a differenziare le terapie della vita dall’accompagnamento della morte. Quest’ultimo basato non più su inutili e crudeli tentativi di normalizzare i parametri vitali ma sull’attenzione alla soggettività del paziente, alle sue intenzioni e al contenimento del dolore e dell’angoscia. Maria Giuseppina Turolla Reggio Emilia