Fabio Monti, Corriere della Sera 12/10/2008, 12 ottobre 2008
MILANO – C’è
stato un Sessantotto anche nello sport e ha coinciso con i Giochi Olimpici di Città del Messico, inaugurati il 12 ottobre di quarant’anni fa. Un evento che ha cambiato il corso della storia, in maniera non più ricomponibile. La politica in senso generale aveva già fatto irruzione nell’Olimpiade, prima e dopo Berlino ’36, edizione assegnata alla Germania nel ’31, quando ancora Hitler non è al potere, ma trasformata poi nel festival della propaganda nazista, nonostante lo strepitoso poker di Jesse Owens. In Messico, accade qualcosa di molto diverso rispetto al passato: irrompono nello scenario olimpico gli avvenimenti di un anno straordinario e sono le rivendicazioni delle identità davanti al mondo a lasciare un segno incancellabile.
I Giochi hanno un prologo tragico, con la strage di piazza delle Tre Culture, quando la polizia messicana spara sui 10.000 studenti che manifestano. Il numero delle vittime resta incerto: 26 per le autorità messicane, 250 per la Associated Press (più 1.200 feriti, compresa Oriana Fallaci, che osserva il massacro da un balcone e 1.800 persone arrestate), addirittura 500 secondo altre fonti. L’Olimpiade è a rischio, ma il presidente del Cio, Avery Brundage, si batte perché si gareggi comunque. I Giochi arrivano dopoché negli Stati Uniti sono stati uccisi Martin Luther King (4 aprile ’68) e Robert Kennedy (6 giugno). Anche così si spiegano il pugno chiuso di Charlie Greene dopo i 100 metri; le sconvolgenti proteste di Tommie Smith e John Carlos, che salgono sul podio senza scarpe (per denunciare la povertà dei neri d’America) e con il pugno avvolto in un guanto nero, dopo la finale dei 200 metri; il basco nero di Evans, James e Freeman, al momento di ricevere le tre medaglie dei 400. Smith e Carlos pagano un prezzo molto alto alla loro protesta: espulsi dai Giochi, isolati per anni in America. Per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, la Germania presenta due squadre (Repubblica Federale tedesca e Repubblica Democratica, Brd e Ddr): l’esperimento unitario non ha retto.
Ma l’Olimpiade messicana ha davvero aperto la strada allo sport moderno. ai 2.248 metri della capitale che il mondo scopre in senso compiuto, dopo quanto si era intuito nelle preolimpiche dal ’65 al ’67, l’importanza e la specificità delle gare in quota. Grazie alla rarefazione dell’aria, ci sono risultati eccezionali nello sprint e nei salti. Nei 100, Jim Hines (14 ottobre) è il primo uomo a scendere sotto i 10’’ nei 100 metri con tempo elettrico (in 40 anni ci sono riusciti in 67, nessun bianco). Nei 200 metri (16 ottobre), Tommie Smith è il primo a mandare in frantumi la barriera dei 20’’ (19’’83, resisterà fino al 19’’72 di Mennea nel ’79): il 19’’92 di John Carlos (bronzo) ai Trials Usa (ai 2.250 metri di quota) non viene omologato perché era stata utilizzata una scarpetta di 68 chiodi. Nei 400 metri (18 ottobre), Evans segna un primato del mondo (43’’86), che durerà addirittura vent’anni. Nei 400 hs, l’inglese David Hemery demolisce il record mondiale (48’’94), arrivando a correre in 48’’12 (15 ottobre).
Ma è nei salti che si vedono risultati non immaginabili, prima di cominciare. Nei salti orizzontali, la rarefazione dell’aria consente di prolungare la fase di volo e i riscontri sono immediati. Così nel lungo, Bob Beamon, che si era qualificato a fatica, causa l’innamoramento per una hostess, in finale (18 ottobre), sfrutta il vento forte, ma regolare (+ 2 m/s) e migliora di 55 centimetri il vecchio record mondiale, saltando m 8,90 («non crediamo ai nostri occhi» dirà Paolo Valenti alla radio), misura che resiste per 23 anni (m 8,95, Powell a Tokyo ’91) e che rappresenta ancora la seconda prestazione mondiale di sempre. Nel triplo, si celebra la più bella gara della storia: Giuseppe Gentile, nelle qualificazioni, fissa a m 17,10 il nuovo primato mondiale (16 ottobre); il giorno dopo, in finale si migliora subito fino a 17,22; al terzo salto, viene scavalcato dal russo Saneyev (m 17,23); al quinto il record è del brasiliano Prudencio (m 17,27); all’ultimo ritorna a Saneyev (m 17,39), con Gentile che vince il bronzo. Una gara così non si è mai più vista. Messico segna la rivoluzione dell’alto, perché Dick Fosbury (primo con m 2,24, 20 ottobre) lancia il salto del gambero, già messo in vetrina ai Trials e forse copiato da Bruce Quande, che lo aveva provato nel ’63. Qualunque sia la genesi, il Fosbury flop è lo stile che cancella il ventrale. Questi risultati sono possibili anche perché vengono abbandonate le piste e le pedane in terra rossa, sostituite per sempre dal tartan, una superficie sintetica, elastica, resistente e in grado di restituire la potenza che gli atleti scaricano a terra, impermeabile anche alla pioggia che aveva condizionato la finale dei 100 metri a Tokyo ’64. Il tartan ha avuto successive evoluzioni, fino alle piste straordinarie ammirate ad Atene 2004 o a Pechino 2008, ma la prima pietra resta il Messico. Messico ’68 segna anche l’ingresso in grande stile dei tempi elettrici completamente automatici (con la pistola dello starter collegata al cronometro), anche se la Federatletica mondiale abbandonerà in maniera definitiva i tempi manuali solo nel ’77 e per nove anni si andrà avanti in una situazione di notevole confusione.
Nelle gare di mezzofondo (dagli 800 ai 10.000) e maratona, due Paesi, Kenya (7) ed Etiopia (2) conquistano la metà delle 18 medaglie in palio e nei 10.000 c’è il primo podio olimpico tutto africano (Kenya, Etiopia e Tunisia). Gli africani sfruttano l’abitudine a correre in altura, mentre gli atleti europei, australiani e nordamericani accusano la mancanza di ossigeno, nonostante allenamenti mirati. L’australiano Ron Clarke, dopo il traguardo, ha addirittura bisogno di essere rianimato, per deficit aerobico; Jim Ryun, favorito nei 1.500, viene strabattuto da Keino. L’altitudine condiziona in senso negativo il nuoto, dove vengono battuti soltanto tre record mondiali nelle 29 gare in programma. Gareggiare oltre i duemila metri, però, è molto più di un fatto contingente, perché l’esperienza messicana rivoluzionerà le metodologie di allenamento non soltanto in atletica, ma in quasi tutti gli sport di fatica, arrivando fino all’utilizzo notturno delle camere ipobariche, sulle quali il dibattito è aperto: è doping, come sostiene la legge italiana (e quella norvegese) o no, secondo la legislazione di tanti altri stati? Gli studi hanno dimostrato che il peggioramento nelle prestazioni avviene ad un’altitudine superiore ai 1.500 metri, ma chi si allena in quota vede aumentare il volume dei globuli rossi e il numero dei capillari: tutto questo produce importanti miglioramenti, quando si torna a livello del mare e l’allenamento in quota è diventato imprescindibile per chi fa atletica ai massimi livelli.
Quella del Messico è anche l’Olimpiade di Vera Caslavska, ultima ginnasta-donna, prima dell’irruzione delle ginnaste-bambine (Korbut e Comaneci). Ma la sua è una storia particolare, non soltanto perché vince quattro medaglie d’oro e due d’argento a 26 anni, ma per l’appoggio alla Primavera di Praga e a Dubcek, al quale dedica le sue vittorie, nonostante l’ingresso dei carri armati sovietici il 21 agosto. Il 26 ottobre, il giorno dopo il suo ultimo d’oro si sposa con Josef Odlozil (argento nei 1.500 a Tokyo) e vola a Capri per il viaggio di nozze. Quando torna in patria, paga l’adesione alla Primavera di Praga: per cinque anni non troverà lavoro. Il Messico registra anche nella ginnastica un caso clamoroso di doping di Stato, che verrà denunciato soltanto 26 anni dopo, quando nel ’94 Olga Karasyova, una delle vincitrici dell’oro a squadre, confesserà in tv che i dirigenti sovietici avevano invitato lei e le compagne di squadra ad avviare una gravidanza per aumentare il testosterone, salvo essere sottoposte ad aborto in coincidenza con la decima settimana. Eppure proprio in Messico erano stati istituiti i primi controlli antidoping.
Fabio Monti