Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 12/10/2008, 12 ottobre 2008
L’aumento di capitale di Unicredit e il decreto salva banche la dicono lunga sull’attuale proprietà delle grandi banche italiane
L’aumento di capitale di Unicredit e il decreto salva banche la dicono lunga sull’attuale proprietà delle grandi banche italiane. Cominciamo col dire che Unicredit si è ricapitalizzato senza aiuti pubblici: i politici che si atteggiano a salvatori non dovrebbero dimenticarlo. Ma diciamo pure che l’operazione fa emergere le ristrettezze del momento: 3,6 miliardi, infatti, vengono da nuove azioni collocate forzosamente come dividendo e 3 miliardi da un aumento di capitale garantito da speciali obbligazioni. E’ vero che per queste Mediobanca ha raccolto impegni fino a 3,3 miliardi, e che, se tutti confermeranno, Mediobanca e Generali potrebbero apportare meno dei 700 milioni stanziati. Ma è anche vero che le fondazioni versano quasi 1,2 miliardi, e cioè coprono il 40% dell’aumento avendo circa il 15% delle azioni. Poiché l’obbligazione paga il 10%, nessuno sta regalando niente e tutti cercano il loro affare. E la distribuzione dei carichi rivela chi sia capace di rischiare, e quanto, sul lungo periodo. Le fondazioni si dimostrano l’ancoraggio più solido, e tuttavia sono indebolite dalle minusvalenze ormai implicite nei loro investimenti mobiliari. In Unicredito hanno già fatto il possibile. In Intesa Sanpaolo avrebbero margini più ampi, ma non troppo più ampi. Se la crisi mordesse oltre le misure sperimentate fin qui nella banca di Profumo, non sarebbero le fondazioni a salvare la patria bancaria. Toccherebbe al Tesoro, che ha appena varato un decreto. Il provvedimento è per forza di cose generico. Nella discussione parlamentare in sede di conversione in legge del decreto e nella definizione dei regolamenti si potranno precisare o correggere tre punti cruciali. 1) Il Tesoro, ha detto Tremonti, sottoscriverà azioni privilegiate, che hanno diritti di voto limitati. Ma, se una banca salvata dal Tesoro poi si rilancia, il plusvalore si concentrerà soprattutto sulle azioni ordinarie. Sono ipotizzabili accorgimenti per recuperarlo alle casse pubbliche, ma tutti complicati. I contribuenti sarebbero meglio protetti se il Tesoro ottenesse azioni ordinarie, più facili, tra l’altro, da rivendere. Certo, da azionista ordinario, il Tesoro nominerebbe gli amministratori. Può non piacere. Ma dovrebbe piacere ancor meno che chi paga non comandi. Del resto, lo Stato diede fiducia a banchieri come Mattioli e Cuccia, non solo ai boiardi di certe casse di risparmio. 2) Il decreto lascia in sospeso chi e come deciderà a quale prezzo entra il Tesoro. Quanto minore sarà il prezzo unitario, tanto maggiore sarà, a parità di versamento, la partecipazione. Il viceversa configurerebbe un regalo agli attuali soci a spese dei contribuenti. 3) Il Tesoro avoca a sé la decisione dell’intervento, sentita la Banca d’Italia che esercita così le funzioni di alta consulenza e vigilanza. Una certa discrezionalità serve, ma, per evitare l’arbitrio, meglio sarebbe chiarire formalmente i nuovi requisiti di capitale delle banche evitando il più possibile che vengano raggiunti contraendo i prestiti.