Sergio Romano, Corriere della Sera 12/10/2008, 12 ottobre 2008
Quando usciremo dal tunnel della crisi del credito e dalla recessione scopriremo che molto denaro avrà cambiato di mano e che le regole del mercato saranno state considerevolmente modificate
Quando usciremo dal tunnel della crisi del credito e dalla recessione scopriremo che molto denaro avrà cambiato di mano e che le regole del mercato saranno state considerevolmente modificate. Vivremo allora in un mondo economicamente e finanziariamente diverso da quello in cui abbiamo vissuto e lavorato prima del crollo delle Borse e dei fallimenti bancari. Ma non vi saranno soltanto conseguenze economiche e finanziarie. Se occorre mettere in discussione il passato e correggerne gli errori, il processo sarà anche inevitabilmente politico e concernerà in primo luogo gli Stati Uniti, in secondo luogo l’Europa. Dopo la fine della guerra fredda, ma soprattutto dopo l’inizio della presidenza Bush, l’America ha fatto due politiche parallele e solo apparentemente contraddittorie. Sul piano finanziario è stata non interventista. Dall’alto del suo trono alla Federal Reserve, Alan Greenspan ha paternamente lasciato che la finanza inventasse i suoi strumenti e le sue regole. Interrogato al Senato sul più discusso di questi strumenti, ha detto nel 2003 che «i derivati sono stati un veicolo straordinariamente utile per trasferire il rischio da coloro che non vogliono correrlo a quelli che sono pronti ad accettarlo e ne sono capaci ». Non siamo, quindi, vittima di un «errore umano », come vengono definite le distrazioni di un pilota. Ciò che è accaduto nelle scorse settimane è il risultato di una consapevole strategia finanziaria. Sul piano politico, invece, l’America è stata deliberatamente interventista. Ha vinto una frettolosa guerra in Afghanistan. Ha distrutto in poche settimane lo Stato iracheno. Ha creato nuove installazioni militari in Asia, in Africa, nei Balcani. Ha allargato la Nato sino a scavalcare di prepotenza i confini della vecchia Unione Sovietica. Vuole annettere all’Alleanza la Georgia e l’Ucraina, vale a dire Paesi che sono per Mosca ciò che il Messico e Cuba sono per Washington. Ha concluso accordi per la creazione di basi missilistiche in prossimità dei confini russi. Ha completato con l’indipendenza del Kosovo la ristrutturazione dei Balcani. Per una straordinaria coincidenza storica gli effetti delle due politiche sono diventati evidenti nello stesso momento. Mentre la crisi dei mutui si allargava sino a investire l’intera finanza internazionale, abbiamo assistito alla guerra georgiana e al brusco peggioramento dei rapporti di Washington con Mosca. Abbiamo constatato che non esiste ancora, a dispetto di qualche miglioramento, un nuovo Stato iracheno. Abbiamo letto le dichiarazioni di un generale britannico e di un ammiraglio americano sulla precarietà della situazione afghana. Abbiamo capito che l’amicizia degli Stati Uniti ha avuto l’effetto di precipitare il Pakistan nella più difficile crisi della sua storia. Abbiamo preso nota del fatto che Washington incoraggia i topi a ruggire (è il caso della Georgia), ma non è in grado di liberarli dalla trappola in cui si sono cacciati. Non mi azzardo a prevedere le conseguenze di queste politiche fallite. Ma non è difficile immaginare con quali sentimenti di preoccupazione o compiacimento questo spettacolo sia visto da Pechino, Mosca, New Delhi, Teheran, Il Cairo, Ankara, Pyongyang, Tokio, Caracas o Brasilia. Non vi è potenza regionale che non s’interroghi sul futuro del mondo e non cerchi di usare, in un modo o nell’altro, il fallimento della leadership americana. Le responsabilità dell’Europa sono numerose. Dopo la clamorosa rottura del fronte europeo all’epoca della guerra irachena, l’Unione è ancora divisa fra quanti hanno deciso di stare con l’America, right or wrong, e coloro che l’assecondano nella speranza di evitare altri errori. Il risultato di queste divergenze, ogniqualvolta occorre decidere, è un minimo comune denominatore irrilevante. Come presidente dell’Ue, Sarkozy ha fatto un buon lavoro a Mosca, a Tbilisi, a Bruxelles. Ma la somma dei suoi sforzi è alquanto modesta. Prevale ancora la consuetudine delle dichiarazioni personali, spesso ispirate dallo stile e dalla loquacità dei singoli leader, come i consigli agli azionisti del presidente del Consiglio italiano e le sue pubbliche riflessioni sulla chiusura dei mercati. Questo spettacolo dell’impotenza europea è peggio della crisi del credito. la dimostrazione dell’incapacità di cogliere una straordinaria occasione storica. Il fallimento del non interventismo finanziario degli Stati Uniti offre all’Ue l’occasione di fare altri passi decisivi verso la propria unità creando ad esempio, accanto alla Banca centrale di Francoforte, un regolatore europeo dei mercati finanziari. Il fallimento dell’interventismo politico degli Stati Uniti dovrebbe incitarla a rompere gli indugi che ancora le impediscono di avere una politica estera e della sicurezza comuni: con tutti i membri dell’Ue, se possibile, con quelli che ci stanno se necessario. Con i suoi errori l’America ha creato un vuoto che molti altri Paesi, nei prossimi mesi, si affretteranno a riempire. Dopo più di cinquant’anni di sforzi e progressi unitari siamo giunti a un bivio. Possiamo scegliere, pigramente, di essere irrilevanti, o contribuire con le nostre proposte politiche a disegnare un ordine migliore di quello in cui abbiamo vissuto, contrariamente a ogni speranza, dopo la fine della guerra fredda.