Vittorio Zucconi, la Repubblica 12/10/2008, 12 ottobre 2008
Aveva quasi sessant´anni, era dunque un topo maturo, Mickey Mouse quando andò in guerra. Era il 1987 e, se la sua fu una guerra immaginaria, la consacrazione finale del suo essere diventato non un altro simbolo dell´America ma l´America stessa fu chiara
Aveva quasi sessant´anni, era dunque un topo maturo, Mickey Mouse quando andò in guerra. Era il 1987 e, se la sua fu una guerra immaginaria, la consacrazione finale del suo essere diventato non un altro simbolo dell´America ma l´America stessa fu chiara. Sulle rovine di una città frantumata dalla oscenità di una guerra che ancora oggi imprigiona la coscienza di una nazione, marciando nelle vie della antica capitale vietnamita di Hue strappata dopo giorni di sangue ai nordvietnamiti, i marines sopravvissuti, lentamente, dolcemente, come bambini spaventati che cantano da soli a letto per non precipitare nel buio della notte, intonano nel finale di Full Metal Jacket l´inno che li salverà dall´orrore di ciò che hanno vissuto. Non l´inno nazionale con la bandiera a stelle e strisce, non il canto di battaglia dei marines con le glorie di Tripoli e Montezuma, non America the Beautiful, un salmo religioso o un pezzo di acid rock. Stanley Kubrick fa cantare loro il salmo dell´innocenza americana, l´inno del club di Topolino, M-I-C-K-E-YM-O-U-S-E.Quei ragazzi coperti sangue e di polvere non avevano combattuto per la libertà contro il comunismo, per Johnson contro Ho Chi Minh, ma per salvare un topo immaginario creato nel 1928 da un immigrato irlandese che non era riuscito neppure a prendere il diploma di liceo. La malinconia di quel canto infantile e tenero raccontava una verità che chiunque sia cresciuto tra l´America della Grande depressione e l´America della Nuova depressione, che si sta abbattendo sulla case della classe media dopo otto anni di amministrazione Bush, conosce. Attraverso tre generazioni, quattro grandi guerre, dozzine di microconflitti, catastrofi naturali e artificiali, attacchi terroristici e disastri politici, le orecchie di Mickey Mouse, i suoi assurdi guantini con le cuciture sul dorso, l´ambigua relazione famigliare con la paziente Minnie, il duello infinito con l´innocuo malvagio dalla gamba di legno, la sua famiglia di cani stupidotti e di parenti di campagna sono stati il filo continuo che ha legato nonni, nipoti, famiglie disintegrate da divorzi, alla continuità della famiglia americana allargata, alla fede nella propria innata bontà. Una nazione che si riconosce in un topolino non può essere prepotente e odiosa come a volte il mondo la descrive, canta da ottant´anni l´America. Presuntuosa e saccente, magari, proprio come quel Mickey che non sbaglia mai e che ha in Donald, il papero creato molti anni dopo, la sua controparte farfugliona e simpatica. Ma non malvagia. Per questo suo rappresentare tutto ciò che amiamo e detestiamo della cultura popolare che sta dominando il mondo dagli anni Quaranta, Topolino resiste e sopravvive agli assalti dei videogame, del web, del porno, dei supereroi sinistramente nietzschiani che ormai occupano schermi grandi e piccoli. Il terrorismo organizzato può distruggere grattacieli e dilaniare i castelli della potenza militare come il Pentagono, ma non potrà mai abbattere quelle orecchie. Non era certamente nato per essere quello che poi diverrà, Mickey Mouse. Nei suoi primi passi disegnati da Walt Disney e animati da Ub Iwerk, prima della presentazione ufficiale e della distribuzione il 18 novembre del 1928 di Steamboat Willie, "Mino del vaporetto", il sorcio era un lazzaroncello donnaiolo e malizioso. E Minnie, che lui conobbe in locali loschi come una "Cantina argentina", dove lei ballava il tango e civettava con un tipaccio zoppo, con un piolo di legno al posto di una gamba, era una ragazzina sveglia e disinvolta, non quella eterna zitellina compita in attesa di una proposta che non arriverà mai. O che forse è già arrivata e ampiamente consumata, nel dubbio che lo stesso Walt coltivò fino alla sua morte nel 1966 senza mai risolverlo. Se la creaturina dispettosa e cattivella che nacque ottanta anni or sono, presentandosi con il lancio di un pappagallo scocciatore fuori dal battello, un gesto che oggi scandalizzerebbe la correttezza animalista del pubblico, si trasformò nell´eroe goody two shoes, nel buono difensore del Bene per definizione, fu merito, o colpa, della Grande depressione spalancata dal presidente repubblicano Hoover e tamponata dal democratico Roosevelt dopo il 1932. Essa obbligò Disney a rispondere alla Grande Depressione morale che l´economia aveva provocato, con un tonico, un protagonista positivo che potesse sollevare il morale, se non i redditi, degli americani. La metamorfosi del topolino malizioso in un sorta di "cavaliere bianco" chiamato a salvare la Topolinia nazionale da ladri e malfattori assortiti rispose, fino al suo inevitabile reclutamento per raccogliere le obbligazioni di guerra e finanziare la lotta contro l´Asse, a una domanda di consolazione e di evasione che Disney seppe intercettare con un fiuto degno della propria creatura. In questa versione salvifica del roditore con i guantini, le generazioni successive di americani si sono immedesimate e identificate al punto da respingere, inizialmente, uno dei film più belli prodotti per lui, quel Fantasia sontuosamente animato e orchestrato dal grande musicista Stokovski, nel quale Mickey, giocando all´apprendista stregone disubbidiente e incosciente, scatena un sabba infernale. Fantasia al debutto fu un flop, che nel 1940 minacciò di risucchiare la casa di produzione in un gorgo di debiti e seppellire il personaggio, perché Mickey non corrispondeva a quello che ormai l´America voleva che fosse. Sempre, e soltanto, un eroe positivo. Un salvator mundi, non uno sbadato casinaro. L´intuizione definitiva, quella che avrebbe per sempre solidificato il ruolo di Topolino come archetipo dell´Eroe Americano senza missili e senza ideologia dichiarata, prese corpo nel 1955, quando il Magic Kingdom, il regno dell´incanto, la prima Disneyland, aprì le porte in una landa desolata a sud di Los Angeles, ad Anaheim. Disneyland non fu il primo parco di divertimenti, né soltanto un luna park con gli steroidi. Fu costruito con l´idea di permettere a coloro che da trent´anni, dal 1928, avevano guardato Topolino & soci sullo schermo dei cinema, nel bianco e nero del teleschermo (quello che spiega l´abbigliamento e i colori concepiti per una tv ancora senza il colore negli anni Cinquanta) o sulle pagine dei fumetti, di vivere personalmente quello che fino ad allora avevano subito passivamente. Disney puntò su qualcosa di assai più grande e radicato nell´anima della nazione che aveva accolto il padre immigrato dall´Irlanda e che lui, respinto dall´esercito perché troppo giovane, era riuscito comunque a servire in guerra come autista di ambulanze sul fronte francese nel 1917. Scommise sulla parola happiness, felicità. La Costituzione americana è l´unica, fra tutte quelle che reggono nazioni civili o incivili, a promettere, fra i diritti fondamentali, anche «la ricerca della felicità» ai propri cittadini, in uno slancio di ottimismo che appare temerario. Per questo il padre di Topolino scelse come slogan centrale dei propri baracconi non la promessa del divertimento, della distrazione, dello svago, ma quella, ben più impegnativa, di essere the happiest place on Earth, il luogo più felice della Terra. Sotto la vigile tutela di quegli orribili sorcioni antropomorfi di peluche che pattugliano le strade delle ormai quattro città disneyane nel mondo, da Parigi a Tokyo e presto in Cina, Mickey promette ai vecchi e ai bambini, che ansiosamente misurano la propria statura in attesa di raggiungere quegli ottantanove centimetri che spalancheranno loro le porte di tutte le attrazioni, il surrogato tangibile di quella felicità, notoriamente così inafferrabile. Nessun altro personaggio, neppure il suo delizioso concorrente su un altro fronte dell´immaginazione, quel Bugs Bunny che incontrò una sola volta nel film Chi ha incastrato Roger Rabbit dopo negoziati fra le due Case più complessi di una trattativa fra Usa e Urss, ha mai raggiunto e raggiungerà mai più, nel gorgo delle celebrità che si formano e si consumano con la velocità di un falò, lo status di primo cittadino dell´immaginazione americana e poi globale. stato scritto, non so con quanta autorità, che le orecchie di Mickey Mouse sono più immediatamente riconoscibili nel mondo anche della croce cristiana o di ogni altro simbolo religioso, ma se lui lo sapesse, ne sarebbe offeso. Come invano tentò di ricordarci l´uomo che gli aveva dato la vita e la vocina in falsetto nei primi cartoni: «Cerchiamo di ricordarci che stiamo parlano di un topo».