Maurizio Ricci, la Repubblica 12/10/2008, 12 ottobre 2008
DAL NOSTRO INVIATO
WASHINGTON - Circolano, in questi giorni, nei corridoi del Fondo monetario internazionale, idee da mozzare il fiato a chi ricorda cosa era, ancora poche settimane fa, il mercato finanziario internazionale. L´idea americana di sgorgare i flussi di credito, otturati da una quantità tuttora ignota di titoli-spazzatura, facendoli assorbire dal governo, è passata, per il momento, in secondo piano: ci vuole troppo tempo a mettere in piedi i meccanismi necessari e la crisi si avvita sempre più in fretta.
Venerdì, i sette Grandi hanno dato la loro benedizione all´ingresso diretto dei governi nel capitale delle banche, i cui effetti, nell´alleggerire i bilanci degli istituti di credito, sarebbero più rapidi. Ma, forse, non abbastanza. Ecco perché Alistair Darling, il ministro del Tesoro inglese, ha insistito per una estensione a livello mondiale delle garanzie sui prestiti bancari, già varate a Londra. Ogni paese potrebbe istituire una stanza di compensazione nazionale, in cui far affluire crediti e debiti, in modo che ogni istituto non debba temere di veder svanire i suoi prestiti, perché la controparte, nel frattempo, è fallita. L´idea si è arenata per le perplessità di Paulson e degli americani che temono, in un sistema finanziario complesso, di favorire le banche rispetto ad altri attori cruciali, come i fondi di investimento. L´idea potrebbe, tuttavia, riemergere, oggi, nel vertice europeo di Parigi. Ma, nei corridoi del Fondo, ci si chiede anche cosa fare nel caso neanche questa misura eccezionale riuscisse ad allentare la paralisi del credito. Istituire una garanzia statale su tutti i passivi delle banche, di fatto una nazionalizzazione secca dell´intero sistema finanziario? Chiamare i governi a fornire direttamente il credito a famiglie ed imprese?
Il fatto stesso che queste ipotesi vengano esaminate dagli esperti dà la misura dell´angoscia con cui si guarda all´evolversi della crisi.
La paralisi del credito riguarda non solo la salute delle banche, ma, soprattutto, l´economia reale, già avviata verso la recessione e che adesso viene a trovarsi a corto di ossigeno. I segnali sono ancora episodici. Ma un gigante come la Ford è costretto a smentire di essere sull´orlo della bancarotta. Il mercato dei «commercial paper», in pratica le cambiali a pochi giorni o poche settimane, da cui le imprese traggono il capitale operativo quotidiano, per pagare gli stipendi o i fornitori, si sta restringendo rapidamente, tanto da costringere la banca centrale americana a intervenire direttamente per acquistare le cambiali: il giro dei «commercial paper» è sceso di oltre il 15 per cento a 1.550 miliardi di dollari.
Nelle ultime quattro settimane, le imprese, rispetto ai tempi normali, si sono trovate a cercare altri espedienti per raccogliere 264 miliardi di dollari, oltre 56 solo nella prima settimana di ottobre. La stretta raggiunge anche i consumatori: è diventato più difficile ottenere una carta di credito o le rate per la macchina. E più costoso: nel mondo, migliaia di miliardi di dollari o di euro in mutui immobiliari, in prestiti al consumo, ma anche alle aziende, sono, infatti, legati al Libor, il tasso di interesse sui prestiti fra banche sul mercato di Londra.
Il Libor (una media dei tassi di interesse che le maggiori banche dichiarano di pagare quando contraggono un prestito) è l´indicatore più comune per misurare la stretta del credito. Normalmente, è solo di qualche decimo di punto superiore al tasso d´interesse delle banche centrali. Ma, dall´inizio della crisi, un anno fa, la forbice si è allargata a interi punti percentuali. Dall´inizio di settembre, quando la crisi ha cominciato ad avvitarsi, il Libor in dollari è in ascesa verticale. Era al 3,76 per cento il 26 settembre (contro un tasso della Fed del 2 per cento), quando si discuteva il piano Paulson di salvataggio delle banche. E´ continuato a salire, nonostante l´approvazione del piano, nuove iniezioni di liquidità, lo stesso taglio del tasso d´interesse: venerdì era al 4,81 per cento, 3,31 punti in più del tasso a cui le stesse banche ottengono soldi dalla Fed. La situazione in Europa è appena meno tesa: l´Euribor (il Libor per il mercato dell´euro) è cominciato a schizzare verso l´alto a metà settembre, quando la crisi ha cominciato a mordere anche di qua dell´Atlantico. Venerdì, a tre mesi, era al 5,46 per cento, oltre un punto e mezzo in più, rispetto al tasso di riferimento della Bce.
Questi tassi esagerati sono, secondo l´interpretazione corrente, il risultato della riluttanza delle banche a prestare i propri soldi ad un´altra banca che, d´improvviso, potrebbe fallire e per questo le garanzie proposte dagli inglesi potrebbero contribuire a sgonfiarli. Un altro indicatore (in gergo «Ted») misura la disposizione al rischio delle banche su questo mercato: è la forbice fra il Libor in dollari (per crediti a 3 mesi privi di alcuna garanzia) e il rendimento dei buoni trimestrali del Tesoro americano (a rischio zero). Anche questo termometro segna febbre da cavallo. In tempi normali, il Ted è normalmente pari allo 0,28 per cento. Era al 2,9 per cento il 26 settembre e al 4,63 per cento venerdì sera. Gli esperti trovano una conferma della fuga dal rischio delle banche anche nella differenza fra l´andamento del Libor sui prestiti ad un giorno e a 3 mesi. Mentre, nel primo caso (quando le eventuali sorprese da parte dell´altra banca sono limitate), il tasso risente degli interventi delle banche centrali, nel più lungo termine il rischio conta molto di più del costo effettivo. Lo stesso fenomeno si verifica sui «commercial paper». Dopo la decisione della Fed di intervenire sul mercato, i tassi ad un giorno sono, in effetti, diminuiti. Ma quelli anche solo a sette giorni sono saliti, al livello più alto del 2008. Le aziende cominciano ad essere prese per la gola.