Carla Marello, La Stampa 11/10/2008, 11 ottobre 2008
CARLA MARELLO Da studenti abbiamo tutti sperimentato scontri con il professore di italiano, e i più precoci con l’insegnante elementare, intorno a questioni del tipo «qui ci vuole una virgola, qui no»
CARLA MARELLO Da studenti abbiamo tutti sperimentato scontri con il professore di italiano, e i più precoci con l’insegnante elementare, intorno a questioni del tipo «qui ci vuole una virgola, qui no». Se ci fosse già stata la bellissima Storia della punteggiatura in Europa - ora edita da Laterza a cura di Bice Mortara Garavelli -, avremmo potuto controbattere che mettere la punteggiatura è compito del tipografo, non del geniale autore. Vi leggiamo infatti che Cervantes consegnava alla stamperia gli autografi del Don Chisciotte senza punteggiatura. Allora, nel 1605, i tipografi distribuirono un segno d’interpunzione quasi ogni sei parole. La moderna edizione del 1998 presenta un segno ogni otto parole. Lutero nei suoi testi tedeschi a stampa ha perlopiù il segno di barra obliqua, la virgula, antesignana della moderna virgola, e lo usa per segmentare il contenuto in vista della declamazione ad alta voce. Il corredo dei tratti interpuntivi adottato in Italia per la redazione dei testi in volgare è nel Trecento basato su quelli latini e cioè su virgula (/) e punto da soli o variamente combinati. Boccaccio nel Codice del Decameron, trascritto tra il 1370 e il 1372 sotto la sua supervisione, si preoccupa che i segni abbiano la funzione d’aiutare la comprensione e che i capilettera rispecchino, attraverso la loro grandezza, una gerarchia: cornice, giornate, articolazione interna delle novelle. Sarà la stampa, come dappertutto in Europa, a razionalizzare il sistema interpuntivo. Se nel 1472 la prima pagina dell’Inferno dantesco stampata a Foligno non conteneva nessuna punteggiatura, imitando le fonti manoscritte, intorno al 1500 a Venezia il trio formato dal dotto Pietro Bembo, Aldo Manuzio, stampatore e umanista, Francesco Griffo, incisore di caratteri, comincia ad innovare. Con l’edizione del Petrarca e di Dante, Pietro Bembo gettò le basi del sistema moderno. Ci volle del tempo prima che i tipografi si accodassero e accordassero e lo fecero prima nei tipi corsivi. Chi oggi vorrebbe bandire dalle tastiere del computer e dalla grafia dell’italiano ogni accento e apostrofo aveva precursori nel primo Cinquecento, perché anche allora creare (incidere) e comporre caratteri accentati costava sforzo. Pietro Aretino, che di certo preferiva impiegare altrimenti il suo tempo, fu felice di affidare ad altri la punteggiatura delle sue Lettere, poiché «una opra bene scritta e ben puntata è simile a una sposa bene adorna e ben polita». Il secondo Cinquecento vede molti grammatici riservare alla punteggiatura uno spazio che prima non aveva nei loro trattati. Nei testi i due punti cominciano ad assumere la funzione moderna di introduttori di esempi e di discorso diretto e a differenziarsi dal punto e virgola. Tasso nell’Aminta pubblicata dal Manuzio (1581) li usa per introdurre le battute dei personaggi, Giordano Bruno per sottolineare il passaggio di turno di parola nei dialoghi. Alla storia della punteggiatura in Italia, suddivisa in sei periodi storici, sono dedicate un quarto circa delle pagine del volume. Si va dalle origini ai nuovi segni virtuali; veniamo così a sapere che se le faccine o emoticon si configurano come un odierno riuso di segni interpuntivi a fini espressivi, la chiocciolina, la nota tironiana che vale «presso», compare anche nel carteggio fra il poeta Belli (morto nel 1863) e la moglie. La curatrice Bice Mortara Garavelli ha suddiviso gli altri tre quarti del volume in vari capitoli che spaziano dalla scriptio continua nell’antichità greca e latina e dalla interpunzione nella cultura bizantina e nella latinità medievale, alla punteggiatura in Francia, nelle lingue iberiche, in romeno, nei Paesi di lingua tedesca, in quelli di lingua inglese, in quelli in cui si parlano e scrivono lingue slave, senza trascurare la storia dell’interpunzione in nederlandese, albanese, in greco e neogreco, nelle lingue ugrofinniche e scandinave. Per tutte le tradizioni sono stati mobilitati esperti stranieri e italiani e il panorama che se ne ricava è veramente ricco, proprio perché oltre alle storie interpuntive di ciascuna lingua o gruppo di lingue emergono chiaramente i reciproci influssi. Dietro la forza di esempio e di regolamentazione che hanno esercitato da un lato grandi scrittori, o grandi traduzioni della Bibbia nei Paesi protestanti, e dall’altro organismi come le Accademie, fondamentale è stato il ruolo degli stampatori e il gradimento dei lettori. L’uso spagnolo di avere il punto interrogativo e quello esclamativo capovolti all’inizio oltre che alla fine della frase fu proposto dalla Real Academia nel 1754, ma solo verso la fine del secolo si impose. Titoli accattivanti come The Rise and Fall of the Semicolon di Paul Bruthiaux, citato nel capitolo sulla punteggiatura nei testi di lingua inglese, ci fanno capire che l’inglese non è sempre stato così parco di punti e virgola come oggi: molto usato nel XVIII secolo perché serviva a scandire un periodare complesso, il punto e virgola nel XIX secolo declinò e si estese l’utilizzo del trattino (dash). Il variare della funzione degli «stessi» segni da lingua a lingua e da epoca a epoca, rende molto utile il repertorio analitico dei segni e della loro storia approntato da Dario Corno. Foto in bianco e nero di scritti e stampe, sparse nei vari capitoli, aiutano a cogliere il valore di segnaletica testuale della punteggiatura. Il volume riempie una lacuna e non soltanto nel panorama culturale italiano: è un’opera che contempera il taglio specialistico con un’ottima riuscita sul piano divulgativo. Bice Mortara Garavelli, grande esperta nel campo (il suo Prontuario di punteggiatura uscito da Laterza nel 2003 è giunto alla decima edizione nel 2007) ha saputo imprimere, grazie ad oculate scelte, un respiro davvero internazionale al volume che case editrici altrettanto oculate non tarderanno a tradurre in altre lingue europee. Stampa Articolo