Maurizio Ricci, la Repubblica 11/10/2008, 11 ottobre 2008
DAL NOSTRO INVIATO
WASHINGTON - Alla fine, forse, sarà solo John McCain a pagare politicamente, per aver detto che «i fondamentali dell´economia sono solidi», appena prima che l´onda di piena della più grave crisi degli ultimi 80 anni sommergesse insieme governi, banche centrali, mercati finanziari. Ma non è stato certo il solo, anche se è stato l´ultimo. Dall´estate del 2007, quando Ben Bernanke disse che la crisi dei subprime sarebbe costata al massimo 100 miliardi di dollari, diventati 1.400 nell´ultima provvisoria previsione del Fmi, ministri e governatori hanno a più riprese assicurato che la crisi era contenuta. «Siamo un paese solido» diceva l´11 settembre Berlusconi. Solo da metà settembre la musica è cambiata e il tema ricorrente è diventato quel «faremo tutto il possibile», ancora del Bush di ieri. In realtà, quello che contraddistingue la crisi in atto non sono le sue dimensioni che (ancora) non sono più gravi degli altri collassi successivi alla Grande Depressione. Piuttosto, è la sua velocità, sovralimentata dai meccanismi di contagio della globalizzazione. E, soprattutto, il suo avvitarsi, nonostante l´eccezionale batteria di contromisure messe in campo da governi e banche centrali.
Paul Krugman sostiene che la crisi «è ormai al di là del raggio d´azione della convenzionale politica monetaria», ma è difficile giudicare convenzionali le armi utilizzate, negli ultimi 12 mesi, dalle banche centrali. Hanno immesso sul mercato liquidità per oltre mille miliardi di dollari, amputato le borse di uno strumento tradizionale come le vendite allo scoperto, assorbito centinaia di miliardi di dollari di titoli-spazzatura. La Fed ha tagliato selvaggiamente i tassi d´interesse e, ormai, si sostituisce alle banche nel comprare finanche le cambiali con cui le imprese assicurano la loro gestione quotidiana. Quasi tutti questi interventi sono stati giudicati, a volte tardivi, ma opportuni dal grosso degli economisti. Eppure, una dopo l´altra, tutte queste armi si sono rivelate spuntate. Le borse hanno a volte reagito, ma i mercati del credito hanno continuato a peggiorare, sempre più ingrippati, aumentando il costo effettivo del denaro.
La svolta doveva già esserci il 7 settembre, quando il governo americano interviene a nazionalizzare Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti dei mutui. In teoria, la crisi dei subprime è arginata. Ma ha già avvelenato il sistema finanziario. Il 15 settembre fallisce uno dei giganti di Wall Street, la Lehman Brothers. Preoccupato di non apparire come il «salvatore di ultima istanza», il governo americano lascia che affondi, commettendo, forse, un errore fatale. Il buco lasciato dalla Lehman rischia infatti, tuttora, di risucchiare altri protagonisti. Nei giorni successivi, le misure si fanno frenetiche. Il governo Usa salva l´Aig, la più grande compagnia di assicurazione mondiale, blocca le vendite allo scoperto in Borsa, mentre le banche centrali pompano 180 miliardi di liquidità sui mercati. Ma i soldi si fermano nei forzieri delle banche, preoccupate di puntellare i loro bilanci. E´, a questo punto che, per alleggerire quei bilanci e rimettere in moto il credito, Paulson lancia il suo piano per l´acquisto dei titoli avvelenati che li appesantiscono. Paulson perde subito il vantaggio dell´effetto-annuncio, di fronte alle resistenze del Congresso. Quando, il 29 settembre, la Camera boccia il piano, l´indice Dow Jones crolla di 777 punti e sul mercato di Londra il tasso sui prestiti fra le banche schizza al 3,88%.
Il contagio si è ormai esteso all´Europa, dove i governi devono intervenire per salvare giganti finanziari come Fortis, Dexia, Hypo. In Italia, traballa l´Unicredit. Il 2 ottobre, Berlusconi si preoccupa di assicurare i risparmiatori: «Nessuno perderà un euro». Lo stesso dice la Merkel. Il 3 ottobre, il piano Paulson viene alla fine approvato e il Dow Jones lo accoglie con un vistoso calo. Il 6 ottobre, la Fed immette altri 600 miliardi di dollari di liquidità e dichiara che pagherà gli interessi sulle riserve delle banche. In pratica, si propone come intermediario: la banca A presta soldi alla Fed, che li gira alla banca B. In Borsa, l´indice Standard&Poor´s perde il 5%, il Dow Jones scende sotto quota 10.000. Il giorno dopo, ancora la Fed entra nel mercato congelato dei commercial paper, le cambiali delle imprese: i tassi ad un giorno scendono, ma chi presta per più di una settimana vuole anche più di prima. Il Dow Jones perde 500 punti, S&P´s un altro 5%.
L´8 ottobre è il giorno della «madre di tutti gli interventi»: un taglio mondiale dei tassi d´interesse. Gordon Brown annuncia la seminazionalizzazione delle banche inglesi. Si muove nella stessa direzione l´Italia. Usa e Germania si preparano ad una drammatica scelta analoga. A Londra, il tasso interbancario, invece di scendere, sale al 4,75%. In due giorni, l´indice S&P´s perde il 15%. Il Dow Jones è crollato del 25% in una settimana. Dice Lloyd Blankfein, il capo di Goldman Sachs: « un momento in cui non c´è limite al pessimismo».