Francesca Paci, La Stampa 10/10/2008, pagina 16, 10 ottobre 2008
La Stampa, venerdì 10 ottobre Shyamala emerge tutta gocciolante dalla vasca dietro l’altare, il sari color lilla incollato al corpo da quindicenne
La Stampa, venerdì 10 ottobre Shyamala emerge tutta gocciolante dalla vasca dietro l’altare, il sari color lilla incollato al corpo da quindicenne. Il reverendo Shem Shaoo, camicia bianca e pantaloni marroni, la segue fuori dall’acqua e alza le braccia al cielo mentre 130 fedeli vestiti con l’abito della domenica intonano l’alleluja. Qui, tra i banchi della chiesa evangelica di St. Joseph a Khurda, una cittadina dell’Orissa a venti minuti dalla capitale Bhubaneswar con le strade sterrate e il mercato punteggiato di tempietti dedicati a Shiva, la violenza anticristiana che dalla fine di agosto squassa il vicino distretto di Kandahmal, è un fantasma da esorcizzare con la testimonianza. «La fede esce rafforzata dalla persecuzione, come all’epoca delle catacombe», osserva l’insegnante di catechismo Kalyan Raju, raccogliendo le copie della Bibbia. A meno di 200 chilometri le milizie fondamentaliste indù Bajrang Dal e Rashtriya Swayamsevak Sangh, i due maggiori gruppi armati della destra ultranazionalista Sangh Parivar ferocemente ostile alle conversioni al cristianesimo, hanno abbattuto alberi secolari per sbarrare la strada allo spettacolo di 4 mila case distrutte, 150 chiese bruciate, 35 morti, 50 mila rifugiati. Il poliziotto che sorveglia pigramente il battesimo di Shyamala, appoggiato all’Honda Hero davanti al sagrato, ricorda che l’odio è vicino, dietro l’angolo. Gli indigeni e la Croce «Li conoscevo, molti degli uomini del Bajrang Dal lavoravano nei campi con me. Quando hanno circondato la casa in 30 armati di spranghe e taniche di benzina li ho chiamati per nome», racconta Riyaz, seduto sulla stuoia accanto alla branda della figlia Monana in una camerata con le pareti scrostate e umide dell’Mkcg Medical College di Berhampur, l’ospedale di riferimento per i villaggi di Kandahmal. Monana, la ragazzina di 14 anni che giace muta e bendata sul materasso ammuffito e senza lenzuola, è scivolata mentre scappava con i genitori verso la giungla intorno al paese di Barakhama. Gli aggressori si sono accontentati di lei: «Le hanno dato fuoco, così». Un volontario del pronto soccorso dice che è stata violentata dal branco come la suora di K. Nuagon convocata a deporre contro i suoi assalitori solo domenica, 39 giorni dopo lo stupro. Ma Riyaz scuote la testa: «Non è vero». La vergogna per un Pannos come lui preme più della giustizia. Anche Susen Parbhan, il vecchietto raggomitolato sul letto numero 407, è un Pannos, una delle due principali comunità in cui si dividono le 62 tribù dell’Orissa, quella che conta il maggior numero di convertiti al cristianesimo, quella da sterminare secondo i «guerrieri della hindutu revolution», come si definiscono i fondamentalisti indù. Il 25 agosto Susen era a Nuaga per le nozze della primogenita, spiega il genero Kdadl: «Si era appena messo in cammino per tornare a casa, l’hanno trovato e bastonato fin quando ha perso conoscenza». I medici hanno dovuto amputare la gamba sinistra. La più popolosa democrazia del mondo sta forse ripensando il diritto delle minoranze e l’articolo 25 della Costituzione, la libertà di fede?, si chiede il columnist del quotidiano The Telegraph, Sunanda K. Datta-Ray. L’80,5 per cento degli indiani sono indù contro il 13,4 per cento musulmani e il 2,3 per cento cristiani. Una proporzione rispettata anche in Orissa, dove però uno ogni 4 dei 37 milioni di abitanti è «adivasi», indigeno delle tribù. La legge indiana classifica questi gruppi aborigeni, sempre sfruttati, come Scheduled Tribes e li tutela con agevolazioni su scuola, tasse, occupazione. Discriminazioni positive analoghe a quelle riservate ai dalit, gli Scheduled Castes, i cosiddetti intoccabili, gli esclusi dal sistema delle caste formalizzato nelle sacre scritture hindu dei Veda oltre tre millenni fa. Conversioni in controtendenza Adivasi e dalit insieme rappresentano poco meno della metà degli orissiani, gente poverissima, concentrata nel distretto di Kandahmal, dove negli ultimi quindici anni 30 mila dalit d’etnia Pannos hanno sposato la parola di Gesù facendosi cattolici, battisti, pentecostali. Secondo il governo federale, un’alleanza dei partiti nazional-religiosi Bhartiya Janata Party (BJP) e Biju Janata Dal (BJD) che sostiene la campagna contro le conversioni ritenute «forzate» e chiude gli occhi sulle scorribande dei miliziani, gli evangelizzati sono aumentati cinque volte tanto. Un problema sociale più che religioso, nota l’avvocato Bibhu Dutta Das, legale dei rifugiati di Kandahmal: «I dalit che scelgono la chiesa perdono le sovvenzioni statali, precluse ai cristiani, ma ricevono un’educazione migliore e, spesso, raggiungono una condizione economica dignitosa». Suscitando l’invidia e l’acrimonia degli ex compagni di sventura, gli adivasi. «Siamo una regione in controtendenza, tra il 1991 e oggi la percentuale di cristiani ha sfiorato il 5 per cento, il doppio della media nazionale», dice padre Lameswar Parichha a voce bassa per non essere udito dagli altri clienti del ristorante Swarna, una specie di mensa popolare a Bhubaneswar, la città dei templi indù. «L’odio è dovunque». Trentasette anni, camicia indiana panjabi e sandali, padre Lameswar ha lasciato la diocesi di Kanjamendi, a Kandahmal, un mese fa e ora abita qui, nell’arcivescovato blindato a pochi isolati dal tempio Satya Kali addobbato per la festa ottobrina di Novaratri. Il 24 agosto scorso, il giorno dopo l’assassinio di Swami Laxmananda Saraswati, il leader del Vishwa Hindu Parishad (VHP), l’organizzazione militante indù di cui i Bajrang Dal sono il braccio armato, il suo nome è finito nella lista nera delle milizie. Poco importa che nel giro di ventiquattr’ore i ribelli maoisti del Communist Party of India (CPI) abbiano rivendicato l’attentato: la caccia al missionario era cominciata e le bandiere triangolari rosse, vessillo del Sangh Parivar, sventolavano già sui campanili delle chiese. Lapidato e gettato nel fiume «L’hanno ammazzato con le pietre, decine di pietre». Puspanjah Panda ripete la scena in modo ossessivo e bacia la foto del marito incollata al cellulare. accovacciata sulla stuoia nel campo profughi YMCA, un casermone invaso di panni stesi e zanzare grandi come farfalle alla periferia di Bhubaneswar. Il 24 agosto Dibya Sundar Digal, pastore evangelico del villaggio di Sipaiju, stessa zona in cui nel 1999 il missionario australiano Graham Staines e i due figli furono arsi vivi da una folla guidata dall’estremista religioso Dara Singh, aveva recitato la messa, come sempre. Si muoveva con attenzione dopo i 4 cristiani uccisi a Natale, primo atto di questa guerra tra poveri: «Un anno fa ci avevano risparmiato, stavolta no, l’hanno lapidato e hanno gettato il corpo nel fiume». Monalise, 11 anni, il brillantino sulla narice destra, un abito rosa come il sari della madre, le tiene la mano: «Li conoscevo gli assassini, siamo cresciuti insieme, un villaggio di 50 famiglie è una grande famiglia, era una grande famiglia». A Sipaiju faceva la sarta: «Non tornerò mai indietro, hanno incendiato la nostra casa, siamo fuggite senza soldi, senza documenti, 250 chilometri a piedi e in autobus». Arriva Christie e serve il riso facendo tintinnare i bracciali che le ornano i polsi. una suora ma da alcune settimane ha smesso per cautela l’abito tradizionale e ha cominciato a portare il «bindi», il puntino rosso sulla fronte distintivo delle donne indiane. Situazione fuori controllo «La situazione è fuori controllo» ammette monsignor Raphael Cheenath, da 33 anni vescovo della diocesi di Cuttack-Bhubaneshwar, seduto nel salotto in finta pelle della sagrestia. Alcuni giorni fa ha ricevuto una cartolina firmata con un tridente, il simbolo del Sangh Parivar, che lo condanna a morte, mandante ideale come tutti i cristiani dell’omicidio di Laxmananda e responsabile del tentativo di «deinduizzare» gli oriundi. Un’accusa rilanciata quasi ogni giorno dai media locali in lingua orya, i quotidiani Pragativadi e Samaz e l’emittente MnorTv: «L’Orissa è stata la prima regione indiana a adottare una legge contro le conversioni forzate nel 1967, l’Orissa Freedom of Religion Act. Noi cattolici abbiamo diverse conversioni, ma di cuore. La pratica e la propaganda della religione sono garantite dalla Costituzione, poi certo, esistono gruppi evangelici che agiscono ai margini della legge, cercano guai. Ma la Chiesa si limita a fornire servizi gratuiti come le scuole, in cui la maggioranza dei bambini non sono cristiani». In cambio, continua il patriarca, riceve l’odio degli estremisti e l’indifferenza dei politici: «Il prossimo anno si vota e nessun leader indiano vuole sacrificare un bacino elettorale come questo. Noi cristiani in fondo siamo talmente pochi». Loro, gli indù, non negano la violenza anticristiana. Ma, la giustificano. I dalit convertiti non sono tutti «angioletti» spiega Lambahdhar Kanhari, il leader tribale di un villaggio vicino Phulbani: «Vengono da fuori, si prendono la nostra terra, il raccolto». Per questo il Sangh Parivar prova prima a riportarli alla vecchia fede. «Mio marito Santosh è tornato induista e ha dovuto pure pagare una multa di 1000 rupie (circa 20 euro)», racconta Jinataman Nayak, 29 anni, originaria di Padrikiya e oggi rifugiata nel campo profughi di Cuttack. Lei, giura, non lo seguirà: «Non abbandono Gesù. Lo sapevo da Natale che ci avrebbero dato la caccia, avevo detto a Santosh di pregare». Un’orazione solitaria. A fine luglio, venti giorni prima dell’inizio della violenza i sacerdoti della diocesi di Bhubaneswar hanno pubblicato un libro, Faith under fire. Ricostruivano 15 anni di agguati, roghi di chiese, pestaggi, segnali d’allarme e preghiere mute. Francesca Paci