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 2008  ottobre 09 Giovedì calendario

Se pensate che gl’italiani vivano giornate d’ansia, dovreste venire a vedere come la crisi finanziaria, ormai diventata crisi economica, abbia preso al collo Londra, la capitale europea dei soldi

Se pensate che gl’italiani vivano giornate d’ansia, dovreste venire a vedere come la crisi finanziaria, ormai diventata crisi economica, abbia preso al collo Londra, la capitale europea dei soldi. La City sembra svuotata, come se molti colletti bianchi avessero perfino rinunciato ad andare al lavoro, per l’epidemia di colera finanziario. I grandi ristoranti ti procurano un tavolo anche all’ultimo momento, senza prenotazione, e si può chiacchierare senza timore, perché i tavoli vicini restano vuoti. I taxi sulla King’s Road, barometro della congiuntura economica, passano in colonna, tutti vuoti, in cerca di un cliente: come sono lontani, solo un paio di mesi fa, i tempi in cui capitava di aspettare per un quarto d’ora fuori dal supermercato, con le borse della spesa appese alle braccia, che comparisse un taxi con la luce gialla accesa. Le cravatte rosa dei bankers, i bancari che si dicevano banchieri, sono sparite. Le Porsche di seconda mano si vendono, dicono, preferibilmente in contanti. La faccia da bulldog stanco di Gordon Brown s’addice al clima da fine impero, come se il sorriso elettrico di Tony Blair fosse uscito di scena al momento giusto. Ed è il segno che il cambio è drastico: nessuno fa più la guerra al premier impacciato, non l’opposizione conservatrice di David Cameron, né quella interna di David Miliband. Se la cavi lui, Brown, se è capace. Non è il caso di esagerare in pessimismo, ma se un columnist come Jonathan Freedland evoca sul ”Guardian” scene da film catastrofico, ”un purgatorio di auto bruciate e cani che latrano”, magari solo per scongiurarle, vuol dire che il Medio Evo prossimo venturo, che poi si chiama recessione, è già cominciato. Ma una recessione non è la fine del mondo. Perché allora Londra sembra attonita, sbigottita, come se fosse finito, se non il mondo, almeno un metodo di vita? Papa Benedetto XVI, che ha gli occhi e lo spirito volti al cielo, ha detto che questa crisi mostra come solo la parola di Dio sia ”solida”. Ma Londra non ha bisogno di fede nell’ultraterreno, perché la City è già di per sé una entità metafisica: è il tempio di Mammona, il vitello d’oro adorato dai bankers che si credevano ”masters of the Univers”, ma che anche i comuni mortali guardano con soggezione e rispetto, perché ogni anno, assieme ai bonus milionari, paga al Tesoro le tasse che fanno marciare la Gran Bretagna. Diciamo così: che sarebbe la Germania se d’improvviso l’industria dell’automobile, le Volkswagen, le Bmw, le Mercedes, andasse a gambe all’aria? Bene: per la Gran Bretagna questa crisi è ancora peggio, perché la City è la prima industria del Paese. Facciamo qualche esempio. L’altra sera alla London School of Economics, davanti ad ambasciatori, banchieri e studenti, Fabrizio Saccomanni, il direttore generale della Banca d’Italia, ha presentato il suo libro ”Global Tigers, National Tamers”, che con tempismo stupefacente ripropone la questione dei mancati controlli, a livello planetario, della finanza globale, con i rischi che oggi vediamo. Analisi precisa, colta, pacata, come ci si aspetta da chi è a capo della banca centrale, una tra le pochissime istituzioni italiane rispettate in Europa e nel mondo. Saccomanni, a farla breve, invoca un ruolo più attivo del Fondo Monetario Internazionale, l’unico braccio planetario a cui si possa dare la forza per difendere il pubblico interesse. (Aperta parentesi: Tommaso Padoa Schioppa, a questo proposito, ha ricordato che ”pubblico interesse” non è solo il meschino bene della comunità locale, regionale, nazionale, ma anche quello planetario. Il pubblico siamo tutti noi, esseri umani). Raccomandazioni d’oro, sensate, quelle di Saccomanni, ma chi le ascolterà mai? E invece apri i giornali e, guarda qua, ecco Martin Wolf, economista capo del ”Financial Times”, che fino a ieri privilegiava la concorrenza, il libero mercato, il ”free trade”, ammette d’essersi ricreduto, citando l’elogio dell’incoerenza di John Maynard Keynes: ”Quando i fatti cambiano, io cambio idea”. Dice che ”la paura che provoca l’odierno collasso dei mercati finanziari è esagerata quanto l’avidità che spingeva in direzione opposta fino a poco tempo fa”. Ciò che gli fa cambiare idea è il fatto che ”pure il panico ingiustificato causa disastri”. Quindi intima che questo panico ”va fermato, non la settimana prossima, ma in questo esatto momento”. Neppure avrà fatto in tempo a leggerlo, Brown, perché doveva annunciare in tv la semi-nazionalizzazione delle più grandi banche britanniche. Perché ora tutti, a cominciare dalla destra di governo italiana, hanno scoperto, con Keynes, la mano pubblica, cioè i soldi dei contribuenti: che l’edonismo reaganiano e il liberismo thatcheriano fossero passati di moda, come lo hula-hoop, l’avevamo capito. Ma qui si torna davvero all’antico. O agli antipodi. Scrive Anthony Hilton, commentatore finanziario dell’”Evening Standard”, il brillante giornale del pomeriggio, schiettamente conservatore, che ”questa crisi è troppo grossa per risolta da un solo governo”. Anche qui è arrivata l’idea che il Fondo Monetario possa diventare il ”poliziotto globale” del sistema finanziario mondiale. E poi mette la foto dei quattro primi ministri europei sui gradini dell’Eliseo, a Parigi, come paradigma di una cooperazione necessaria per frenare il crollo dei listini: l’Europa ritrovata, da chi fino a ieri la vedeva come il fumo negli occhi. E il citato Freedland constata che la potenza dei banchieri lasciati fuori dalla gabbia, ”bestie che i governi sono impotenti a domare”, è diventata una crisi della democrazia. Proprio così: ”Il popolo e i suoi rappresentanti hanno un controllo minimo o nullo sopra ciò che li riguarda direttamente”. Chiudiamo qui. Consiglio la lettura di un articolo di Paul Kennedy, il grande storico degli imperi, pubblicato sullo ”Herald Tribune”: il disastro è stato compiuto dai banchieri irresponsabili, che offrivano mutui al 105 per cento del valore del bene immobile, ma ora, guardando come vanno in rosso i nostri piccoli conti, da economia domestica, siamo costretti a ricordare le parole immortali di John Donne, il poeta inglese: ”Non chiederti per chi suona la campana. Suona per te”.