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 2008  ottobre 09 Giovedì calendario

Corriere della Sera, giovedì 9 ottobre A Horace Engdahl, segretario permanente dell’Accademia di Svezia, gli scrittori americani non piacciono affatto: li giudica «isolati e provinciali »

Corriere della Sera, giovedì 9 ottobre A Horace Engdahl, segretario permanente dell’Accademia di Svezia, gli scrittori americani non piacciono affatto: li giudica «isolati e provinciali ». Del resto anche l’inglese, come lingua letteraria, non lo convince: «per niente universale», l’ha definita di recente. E se la pensa così il giovane Horace (sessantenne, ma giovane secondo i parametri degli ambienti Nobel, una certa somiglianza con l’attore Hugh Grant), c’è da temere che anche quest’anno il grande Philip Roth resti a bocca asciutta. Tuttavia, si sussurra nei corridoi del palazzo della Borsa di Stoccolma, dove l’Accademia risiede dal 1914, il prossimo anno cambia la musica: appena l’impresentabile George Bush avrà fatto il piacere di traslocare dalla Casa Bianca e il politicamente correttissimo Barack Obama avrà preso possesso degli uffici, l’America tornerà di moda e, se non sarà Roth a festeggiare, potrebbero farlo Thomas Pynchon o Don De Lillo. Ma per ora accontentiamoci di rivivere il solito rito che va in scena oggi: i diciotto accademici che infilano alla spicciolata il portoncino di via Källargränd numero 4, in piena Città Vecchia; siedono al mitico tavolo rettangolare dove si accumulano tazze di caffè e fette di torta; soppesano la cinquina dei finalisti; infilano il voto (segreto) nell’antica cuccuma d’argento; infine, una volta raggiunta la fatidica maggioranza della metà più uno, fuggono precipitosamente giù per la stessa via Källargränd, inseguiti dai giornalisti di tutto il mondo, famelici di scoop... Sono concupiti solo per un giorno, gli accademici svedesi, giacché i loro nomi hanno risonanza esclusivamente in Scandinavia: su tutti Kjell Espmark, romanziere e a lungo presidente della commissione ristretta, king-maker per quindici anni fino al 2006. Eccentrici e di importanza locale quasi tutti gli altri, come la poetessa Kristina Lugn, affezionata ai temi della morte e solitudine; il ricercatore informatico Sture Allén; il critico e jazzista Ulf Linde. Poi vengono le pecore nere, come Kerstin Ekman, dissociatasi dall’Accademia per la mancata difesa di Salman Rushdie, o Knut Ahnlund, autosospesosi nel ’96 e tre anni fa talmente scandalizzato dalla scelta dell’austriaca Jelinek da dimettersi (cosa notoriamente impossibile perché la carica all’Accademia è a vita). Del resto, ingiustizie, cordate interne, favoritismi e condizionamenti politici sono da sempre il pane del Nobel, insieme con le polemiche per le esclusioni. Come mai in anni lontani furono bocciati personaggi come Ibsen, Zola, Tolstoj? Semplice, perché il presidente della commissione d’allora, l’ultraconservatore Wirsén, non tollerava critiche a religione, monarchia e famiglia. E come mai allora finì per spuntarla Giosuè Carducci? Il motivo è che Wirsén si convinse che il poeta, più che antireligioso, era anticattolico: cosa che a lui, protestante svedese, non spiaceva affatto. Meno fortunato tra gli italiani fu Benedetto Croce, abbandonato al suo destino nel 1952 per mancanza di sponsor adeguati; e ancor peggio andò a Riccardo Bacchelli negli anni immediatamente successivi, quando venne frettolosamente liquidato senza discussione né essere letto dai giurati (come risulta negli atti recentemente liberati dal segreto). Un intreccio di politica, clientelismi, diplomazia e pregiudizi condiziona dunque la grande corsa: tuttavia la regola di fondo, che esige la presenza di un carattere "pionieristico" e al tempo stesso "anticonformista" nell’opera del vincitore, è di solito rispettata. I caratteri peculiari nella galleria dei Nobel sono legati piuttosto a curiosità personali, al fatto che siano stati i più... qualcosa. Beh, il più calunniato fu certo Borges, escluso perché considerato troppo amico del dittatore argentino Videla. Il più problematico Solzhenitsyn, al centro di contatti diplomatici segreti per risparmiargli guai politici da parte del regime sovietico, come già era successo a Pasternak. Il più ambiguo Jean-Paul Sartre, che rifiutò il Premio con grande enfasi pubblica e poi si fece avanti privatamente per ottenere l’assegno (l’Accademia naturalmente lo ignorò). Il più imprevidente il russo Ivan Bunin, che nel 1933 fece il gran gesto di devolvere il premio ai connazionali in esilio, però quando si rese conto di non avere successo commerciale tornò a rivolgersi contrito e in miseria all’Accademia. Il più immaginifico naturalmente Ernest Hemingway, quando pronunciò la famosa frase: «Darei il mio premio Nobel soltanto in cambio di una cosa: il titolo di campione del mondo dei pesi massimi». Il più noto al grande pubblico, un finto Nobel: il poco credibile Paul Newman nei panni dello scrittore vincente e concupito dalle donne nel film Intrigo a Stoccolma. Il più apprezzato dagli svedesi invece Isaac Bashevis Singer, che durante il banchetto di festeggiamento dichiarò d’aver cominciato a scrivere libri per ragazzi in omaggio al fatto che «sbadigliano apertamente quando trovano un libro noioso, e non si aspettano che il loro autore preferito redima l’umanità ». Tra gli italiani, i più fortunati Quasimodo e Montale, tradotti in svedese da Anders Oesterling, potente membro della commissione e grande estimatore della poesia italiana. I più danneggiati Papini e Moravia, perché, quando erano in lizza, agli occhi di molti svedesi l’Italia non si era ancora liberata dalle scorie del ventennio. Il più sfortunato Italo Calvino, morto quando la sua vittoria appariva sicura. I candidati italiani più sconosciuti o dimenticati? De Gubernatis, Salvatore Farina, Dora Melegari, Roberto Bracco. I più trascurati, al punto da non venire nemmeno proposti? D’Annunzio, Pascoli, Verga, Pavese, Vittorini, Gadda. Il più imbarazzante? Mario Luzi, sempre sul punto di vincere ma irreparabilmente danneggiato dopo le polemiche attizzate in Italia dal suo sentirsi ingiustamente trascurato. La più sorprendente candidata ombra? Elsa Morante, della quale non si seppe mai nulla fino a quando Kjell Espmark rivelò di essere stato uno dei suoi più convinti sostenitori. Il più divertente Dario Fo, non solo per lo sfoggio del frac firmato Gianfranco Ferré, ma soprattutto per aver pronunciato il discorso ufficiale con voci diverse, compresa quella di un cavallo. I più ridicoli, infine, quelli che si fanno vedere con finta nonchalance per le strade di Stoccolma, senza conoscere la regola non scritta: candidatura ostentata, candidatura bruciata. Dario Fertilio