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 2008  ottobre 09 Giovedì calendario

La Stampa, giovedì 9 ottobre Il paradosso dei paradossi sarebbe che Obama divenisse ora Presidente in mancanza di meglio

La Stampa, giovedì 9 ottobre Il paradosso dei paradossi sarebbe che Obama divenisse ora Presidente in mancanza di meglio. Colui che avrebbe dovuto personificare una radicale svolta dell’America, il primo nero alla Casa Bianca, l’uomo del cambio generazionale, eletto alla fine sull’onda d’una semplice deriva. Siamo seri, qualcosa non funziona con il candidato democratico. Ha perso carisma, anche se è sempre gradevole; ha perso appeal, anche se tutti lo baciano; ha perso grinta, anche a parole, ma soprattutto pare non abbia più nulla da dire. Questa distanza non siamo certo i primi a notarla, sebbene i suoi collaboratori abbiano già cercato di rigirarne il segno, definendola «uno stato zen», che pare potrebbe rivelarsi una forma di leadership, rappresentando la calma nel mezzo della tempesta. Può essere. Ma più che zen, Obama appare il cerbiatto abbagliato dai fari. E la macchina è quella della crisi economica che sopravviene veloce. Nel secondo dibattito con McCain sull’economia, cioè su quel battito cardiaco accelerato che fa pulsare il sangue nelle vene d’America, Barack ha fatto un discorso ripetitivo, senza nessuna originalità di formule, e ancor meno soluzioni. Di fronte a un crollo inimmaginabile, da lui non è arrivato uno scatto intellettuale, o anche solo l’indicazione di una strada da prendere. Come si salva l’America da questa enorme crisi, può dircelo passo per passo?, chiede il giornalista durante il confronto. Obama risponde, letteralmente: «Io penso che tutto cominci con Washington perché siamo noi, intanto, a dimostrare di avere un comportamento virtuoso... Sono convinto che molti dei presenti soffrono di non poter condividere il proprio peso con altri... Ognuno di noi deve contribuire... Per questo dobbiamo tagliare il bilancio statale usando non l’ascia ma lo scalpello, in modo da non ferire nessuno». Se questa non è la solita generica dichiarazione di buone intenzioni, vuol dire che non ho capito niente (il che è possibile). Ma non mi pare che tali affermazioni abbiano fatto salire la Borsa. Tutto questo non ha nulla a che fare con la performance di McCain, apparso anche lui debole; ma almeno ci ha provato, annunciando a sorpresa un piano dello Stato per rinegoziare i debiti di una buona fetta di proprietari di casa in difficoltà. Dei piani dei repubblicani l’America non pare fidarsi e la proposta non ha scaldato i cuori. Obama poteva inserirsi qui: ma si è limitato a riprendere il suo filo, dando l’impressione di parlare dal palco come se fosse solo. Mentre McCain prometteva nuove perforazioni negli Stati Uniti per trovare il petrolio, nuove centrali nucleari, Barack rispondeva promettendo alle donne educazione e assistenza medica, in particolare sostegno alla maternità e mammografie. Se McCain tentava di alzare i toni, «i cittadini sono arrabbiati, preoccupati e piuttosto timorosi», Obama rispondeva con il linguaggio del tenero familismo democratico: ha usato la parola «you» o «yours» novanta volte, ha parlato di sua madre, di sua moglie e persino di sua nonna, ed ha usato la parola «classe media» un’infinità di volte, proponendo alla fine il solito, sia pur attento, intervento dello Stato nel sollevare i destini dei cittadini. Insomma, la ricetta usuale in tempi inusuali. Eppure il Wall Street Journal prevedeva che sei su dieci elettori voteranno guardando alle migliori soluzioni economiche, e che su questa base c’è una maggioranza a favore di Obama. Come è possibile? Davvero offre fiducia una proposta così esile come quella che abbiamo sentita? O a favore di Obama sta forse giocando solo il risentimento nei confronti dei repubblicani, considerati coautori della crisi? Insomma, Barack Obama può vincere allo stato attuale, ma sarebbe una vittoria di deriva. Non sappiamo che cosa stia succedendo al candidato democratico. Sappiamo però da quando datare questo suo «evaporare». Dopo la Convention che lo ha coronato vincitore, la sua voce non si è sentita quasi più, inghiottita prima dalla stanchezza della corsa, poi forse dai molti patti che ha dovuto fare nel suo stesso partito e poi ancora dalla vitalità di Sarah Palin. Si può capire dunque questa sorta di crisi, ma a pochi giorni dal voto quel che conta non è il suo percorso da candidato, ma quello di futuro Presidente. Se proprio lui, l’uomo nuovo, vincesse più per collasso altrui che per forza propria, non sarebbe molto rassicurante in un momento in cui il prossimo Presidente degli Stati Uniti dovrà riempire il vuoto creatosi con questa crisi al centro stesso del mondo. Lucia Annunziata