Massimo Gaggi, Corriere della Sera 8/10/2008, pagina 6, 8 ottobre 2008
Corriere della Sera, mercoledì 8 ottobre New York. «Adesso a impedire una ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie da oltre un anno» dice il neuropsichiatra Richard Peterson, più noto come gestore di un «hedge fund» basato sull’«emotional arbitrage»
Corriere della Sera, mercoledì 8 ottobre New York. «Adesso a impedire una ripresa non sono solo i fattori economici e la psicologia dei mercati entrata in una spirale negativa, ma anche lo stress prolungato di chi vede accavallarsi brutte notizie da oltre un anno» dice il neuropsichiatra Richard Peterson, più noto come gestore di un «hedge fund» basato sull’«emotional arbitrage». «L’ormone dello stress condiziona la nostra mente, ci spinge a fare ragionamenti di breve periodo, a essere impulsivi». Condivide John Schott, un altro psichiatra che si è dato agli affari (è «portfolio manager» di Steinberg Asset Management e autore di "Mind Over Money", un saggio sulla psicologia del risparmiatore): «In momenti come questi si instaura un circuito della paura inconscio e incontrollabile. E’ un fenomeno che possiamo addirittura vedere fisicamente con una risonanza magnetica cerebrale, ma che non possiamo controllare. Emotività che prevale sulla nostra razionalità, che ci spinge a tirarci indietro: è come una "slot machine" che funziona al contrario: respinge invece di attirare». Wall Street ha vissuto un’altra giornata nera nonostante i nuovi, massicci interventi della Federal Reserve a sostegno dell’economia americana e tutti si chiedono che cosa deve ancora succedere perché si spezzi questa spirale che paralizza il credito e deprime il sistema produttivo del Paese. Costringendo le autorità monetarie a ipotizzare addirittura l’«elettrochoc» di un calo dei tassi d’interesse concertato a livello mondiale. Non saranno certo le analisi degli psichiatri trasformatisi in trader a indicare la via d’uscita da questa crisi. Ma è evidente che negli ultimi anni, nel valutare il comportamento dei mercati, i fattori psicologici, i comportamenti emotivi dell’«homo oeconomicus», sono stati molto sottovalutati. E ciò, nonostante che i cosiddetti «economisti comportamentali» avessero sfidato da tempo gli assunti dell’economia neoclassica sul comportamento razionale dei mercati. E avessero anche vinto qualche premio Nobel (ad esempio quello di Daniel Kahneman) dimostrando che il comportamento dei soggetti del mercato non è «modellizzabile» perché è influenzato dalle reazioni soggettive e dalla variabile dei comportamenti collettivi. Certo, oggi fa impressione vedere Wall Street continuare a flettere nonostante il governo leader del mondo abbia messo in piedi interventi a sostegno del mercato dei capitali di dimensioni mai viste nella storia dell’umanità. Ma bisogna chiedersi se l’assenza di reazione agli stimoli mostrata in questi giorni dai mercati sia il frutto di un’anomalia emotiva inferiore o superiore a quella, di segno opposto, prodotta dalla lunga stagione dell’«esuberanza irrazionale». Perché anche nel galoppante ciclo della crescita e della moltiplicazione del debito degli anni scorsi, i fattori emotivi, la propensione a rischiare al di là del ragionevole, il sovrappiù di testosterone misurato in una ricerca dell’università di Cambridge basata sul comportamento di un gruppo di trader della City di Londra hanno avuto il loro peso. Se ne erano accorti in molti. Non solo studiosi della psiche ed economisti, ma anche grandi investitori come George Soros che anche nel suo ultimo saggio («Il nuovo paradigma dei mercati finanziari») sostiene che l’idea che i mercati sappiano autoregolamentarsi e tendano naturalmente all’equilibrio è sbagliata. Un’illusione che solo il fondamentalismo mercatista ha potuto continuare ad alimentare anche davanti all’evidenza delle bolle speculative – soprattutto quella immobiliare – che continuavano a gonfiarsi sull’onda dell’eccessivo indebitamento: un fenomeno che dava agli operatori una sensazione di grande sicurezza che li spingeva a rischiare ancora di più in una spirale perversa che, ora, si è improvvisamente capovolta. L’epitaffio di un’era di fiducia cieca nell’ottimismo emotivo degli investitori l’ha scritto, nel luglio del 2007, l’allora capo di Citigroup, Chuck Prince, che, con la banca già in grosse difficoltà, disse al «Financial Times»: «Quando la musica si fermerà, la situazione sarà complicata, in termini di liquidità. Ma finché l’orchestra suona, noi continuiamo a ballare». Pochi giorni dopo la crisi cominciò ad avvitarsi, Citigroup si ritrovò con le spalle al muro e Prince fu messo alla porta. Ritrovare uno per uno gli orchestrali e rimetterli insieme non sarà facile, anche perché dopo gli anni della moltiplicazione «selvaggia » del debito e dell’esposizione delle banche, ora assistiamo a un «deleveraging» altrettanto selvaggio che deprime l’economia. Dopo i salvataggi bancari e le immissioni massicce di liquidità, ora, forse, si prova coi tassi. Massimo Gaggi