Maurizio Molinari, La Stampa 8/10/2008, pagina 15, 8 ottobre 2008
La Stampa, mercoledì 8 ottobre Collane dorate, fiumi di birra e ritmi blues per Barack. Per comprendere perché Obama sente di poter espugnare le roccaforti repubblicane del Sud bisogna varcare a Nashville, Tennessee, la soglia del «Bourbon Street Blues and Boogie Bar» al numero 220 della Printers Alley, il leggendario locale del blues che per vent’anni ha ospitato il Boots Randoplh Carousel Club
La Stampa, mercoledì 8 ottobre Collane dorate, fiumi di birra e ritmi blues per Barack. Per comprendere perché Obama sente di poter espugnare le roccaforti repubblicane del Sud bisogna varcare a Nashville, Tennessee, la soglia del «Bourbon Street Blues and Boogie Bar» al numero 220 della Printers Alley, il leggendario locale del blues che per vent’anni ha ospitato il Boots Randoplh Carousel Club. Il locale tutto in legno, su due piani, verso mezzanotte si popola di donne afroamericane con indosso parei dai colori sgargianti, corpulenti uomini bianchi con tatuaggi militari sugli avambracci, ragazze in jeans attillati e cappelli da cowboy e una miriade di ventenni che divorano piatti in salsa cajun danzando fra i tavoli sulle note di una «house band» il cui chitarrista bianco ripete più volte nel microfono: «Non aspettiamo altro che Barack Obama diventi presidente, così l’intera America dovrà finalmente imparare a ballare». E appena dice «ballare» la danza diventa collettiva. Visto dai tavoli del «Blues Club of the Year» il Tennessee non sembra l’imprendibile Stato repubblicano che i sondaggi assegnano a John McCain con 19 punti di vantaggio, quanto una finestra sul Sud conservatore tentato dal voto per Obama. « in atto una trasformazione politica negli Stati del Sud», spiega Nick Wells, 26enne titolare del quartier generale di Obama a Nashville, secondo il quale «in Tennessee come in North Carolina, in Virginia e in Georgia tutti hanno valori conservatori ma in pochi questa volta voteranno per i repubblicani». Wells è cresciuto nella regione degli Appalachi, in una famiglia della classe media dove «l’ultima volta che si votò democratico risale a Jimmy Carter» e nel 2000, quando stava finendo il liceo, si offrì per la campagna di George W. Bush. Ora Wells coordina il lavoro di 1600 volontari impegnati a preparare il porta a porta a Nashville per «trascinare alle urne» tutti i potenziali elettori il 4 novembre. Prima di Obama nessun candidato democratico aveva mai avuto un quartier generale a Nashville - neanche Al Gore, cittadino del Tennessee, nel 2000 - ma ora al numero 907 del boulevard intitolato a Rosa Parks, l’eroina delle battaglie contro la segregazione negli Anni Sessanta, sorge un ufficio di mille metri quadrati con una gigante «O» colorata sulla porta di ingresso e dentro decine di volontari, impegnati a «cambiare questo Paese», come dice Lee Levin, neanche trent’anni. C’è la «phone room» dove si chiamano i numeri degli «elettori identificati», il «front desk» da cui partono le istruzioni per i volontari in strada, il «kids corner» popolato dai figli piccoli degli «Obama people» e su tutti campeggia un muro gigante coperto di lodi a Barack e attacchi a Sarah Palin, tipo il gioco di parole «Do you want to Pain? vote McCain» (vuoi farti del male? vota McCain). La maggior parte dei volontari sono bianchi e per capire come sia possibile in un angolo del Sud dove le fibrillazioni razziali resistono bisogna andare di fronte alle agenzie di collocamento. In città ve ne sono sette. Le file di chi attende un lavoro quotidiano si allungano sulla strada. La tensione è palpabile. I bianchi sono tutti uomini fra i 35 e 50 anni, arrivano con pick up usati, giubbotti di pelle, e non gli va di parlare troppo. Guardano gli estranei con sospetto. Poi vi sono gli afroamericani che si lamentano perché «qui noi veniamo pagati 7 dollari all’ora mentre l’agenzia ne riceve dai datori di lavoro 12-15 e ai bianchi ne danno di più», dice un immigrato dall’Etiopia. «Qui il razzismo ancora c’è - aggiunge - ma vincerà Obama perché la gente è diventata più povera, anche i bianchi». la stessa tesi di Wells: «Quando si perde il lavoro c’è poco tempo per pensare ad aborto, fucili e gay, i temi dei conservatori passano in secondo piano e la gente comune vota democratico». Il fattore-razzismo resta il maggiore interrogativo ma per i giovani universitari che si sono dati appuntamento all’Hillsboro Village per marciare compatti sulla Belmont University, dove in nottata si è svolto il dibattito presidenziale, si tratta di una «cosa del passato», come dice Kate, 24 anni, con indosso i colori della bandiera confederata. In genere si tratta di una bandiera identificata con i sudisti che si batterono nella Guerra Civile per mantenere la schiavitù ma lei afferma che «il Sud oggi è diverso» anche se «questa resta la nostra bandiera». L’altra carta in più che ha Obama nel Sud rispetto ai predecessori John Kerry e Al Gore è la fede. Ogni venerdì mattina, alle 9,30, nel quartier generale vi sono preghiere collettive per Barack. Il testo, letto ad alta voce, è «Chiediamo la nostra benedizione per il senatore Barack Obama, sua moglie e i suoi figli, preghiamo affinché abbia la mente salda e il pensiero chiaro, Amen». Spesso avviene che nei singoli «Obama meeting» si ascoltino sermoni registrati di pastori che hanno legato il nome a tale benedizione come Kirbyjon Caldwell di Houston, Texas, Cynthia Hale di Decatur, Georgia. Vi sono anche i corsi di «iniziazione alla preghiera». Durano 15 minuti e viene insegnato come «esprimere le intenzioni in 5 minuti». L’affluenza si conta in centinaia di persone e a spiegare il successo è Elijah, 40enne, quando dice: «Nell’ultimo mese abbiamo avuto tre uragani e una terribile crisi economica, sono segni di Dio, ci sta dicendo che dobbiamo cambiare le cose». E votare per Obama. Maurizio Molinari