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 2008  ottobre 05 Domenica calendario

Il Sole-24 Ore, domenica 5 ottobre Nel pieno del terremoto finanziario di settembre, a Londra è successo qualcosa di significativo

Il Sole-24 Ore, domenica 5 ottobre Nel pieno del terremoto finanziario di settembre, a Londra è successo qualcosa di significativo. Mentre la City era scossa dal fallimento della Lehman Brothers e dall’assalto alla Hbos, un’asta di opere di Damien Hirst organizzata dalla Sotheby’s raggiungeva livelli record, con ricavi lordi per circa 145 milioni di euro. Poca roba rispetto alle cifre andate perdute a Wall Street, ma un voto di fiducia non da poco per l’opera di un solo artista. Le bolle finanziarie, come quella che è appena scoppiata definitivamente, sono strettamente correlate al mondo dell’arte. La Firenze del Rinascimento dipendeva dal mecenatismo dei Medici. La Venezia del Cinquecento trasformò la ricchezza derivante dal commercio delle spezie nelle tele di Tiziano e Tintoretto. Poi il centro del commercio mondiale si spostò ad Amsterdam e anche qui i cittadini ricchi promossero un nuovo stile artistico, dando vita all’epoca di Rembrandt. I grandi finanzieri di Ottocento e inizio Novecento, uomini come J. P. Morgan, Henry Frick e Andrew Mellon, spesero gran parte dei loro patrimoni in opere d’arte. Dal loro punto di vista, collezionare arte non era semplicemente una questione di benevolenza e immagine pubblica. E non era nemmeno semplicemente un hobby molto costoso. Le loro gallerie erano la prova pubblica e visibile del discernimento e del giudizio su cui era fondato il loro business finanziario. Il giudizio finanziario, per contro, è, per sua stessa natura, impermeabile all’ispezione. Dipende da accordi riservati, dalla capacità di anticipare il mercato. impossibile dire chi stia facendo una scommessa sicura e chi un azzardo sconsiderato. Di conseguenza, è utile avere un’attività alternativa che consenta agli esterni di capire se questo processo di discernimento e valutazione avviene davvero oppure no. La recente era della finanza globale - forse possiamo già parlarne al passato - è stata diversa dal boom finanziario di un secolo fa. E diverse sembrano essere state anche le sue manifestazioni culturali. Per alcuni tra i suoi protagonisti, collezionare arte contemporanea era la dimostrazione di come la finanza fosse diventata un processo creativo, molto più che ai tempi dei finanzieri antichi. Morgan o Mellon collezionavano soprattutto grandi maestri del Cinquecento, la cui reputazione era evidente e ben consolidata. I nuovi collezionisti d’arte, invece, somigliano più ai Medici, perché stimolano una nuova creazione culturale. Come fanno per i loro investimenti, gli habitués dei mercati dell’arte contemporanea non si affidano unicamente al proprio giudizio, ma si rivolgono a team di esperti consiglieri e mercanti d’arte, in grado di dare il loro parere su quale tendenza colga nel modo migliore lo spirito dell’epoca. Gli esterni, ingenuamente, trovano il mondo dell’arte sconcertante. Perché mai una mucca conservata in formaldeide dovrebbe rappresentare una grande conquista culturale? Cosa c’entrano delle lenzuola ricoperte di puntini colorati sparpagliati qua e là - sfornate dai grandi e meccanizzati atelier di Hirst - con l’innovazione o l’originalità artistica? Ma il grande pubblico non ha accolto con la stessa incomprensione i prodotti finanziari sempre più sofisticati che venivano scambiati sul mercato? A quanto sembra, la natura dei rischi impliciti in questi strumenti non era chiara nemmeno alle autorità di regolamentazione o ai vertici delle società che stavano costruendo il settore. Certi artisti moderni e i loro mecenati hanno sottolineato esplicitamente il parallelismo tra l’arte contemporanea e i nuovi prodotti finanziari. La Deutsche Bank, l’istituto di credito che dedica maggiori fondi all’acquisto di opere d’arte in Europa, ha pubblicato le opinioni di esperti accademici riguardo ai clienti e al grande pubblico, definiti «estremamente conservatori, noiosi, privi di immaginazione e che non sanno quello che vogliono». Dopo le implosioni finanziarie, come il collasso della bolla internet del 2000 o la crisi dei subprime del 2007-2008, opinioni come questa suonano arroganti. Il parallelo tra un’arte sconcertante e apparentemente priva di senso e prodotti finanziari inintelligibili suona più come una condanna che come una rassicurazione. E allora perché l’asta delle opere di Hirst è stata un tale successo? Da una parte perché le opere battute erano tutt’altro che inintelligibili. Il pezzo più atteso, un toro con corna e zoccoli d’oro era intitolato, con evidenti intenzioni, «The Golden Calf» (Il vitello d’oro). Ma non è stato solo questo a spingere gli offerenti a rilanciare. Si dice che il grosso delle offerte siano venute da acquirenti russi, proprio nel periodo in cui nel loro Paese entrava in crisi il sistema bancario. Contemporaneamente, c’è stata un’impennata della domanda di gioielli d’oro. La caccia a beni non finanziari è un comportamento tipico in qualsiasi crisi finanziaria: durante il grande dramma dell’iperinflazione nella Germania di Weimar, questo atteggiamento fu definito die Flucht in die Sachwerte, la fuga verso i valori tangibili. L’arte funziona anche come magazzino del valore. Ma per poter essere certo che svolga effettivamente questo ruolo, l’acquirente dev’essere convinto di quale sarà la valutazione sul lungo periodo dell’oggetto del suo desiderio. I banchieri italiani del Rinascimento compravano opere d’arte anche perché servivano a rammentare loro valori senza tempo che andavano al di là delle transazioni quotidiane. Vedevano le acquisizioni di dipinti e sculture come un legame con l’eternità. Chi può dire lo stesso per i prodotti di Damien Hirst? Harold James