Sandro Modeo, Corriere della Sera 6/10/2008, 6 ottobre 2008
Subito dopo aver placato la propria esuberanza dialettica (l’emorragia verbale in alternanza tra geniali aforismi e incazzosità gratuita), José Mourinho ha trasferito la sua vocazione a sorprendere sul versante tattico, rivitalizzando tra lo sconcerto generale il modulo fossile del più puro 4-2-4
Subito dopo aver placato la propria esuberanza dialettica (l’emorragia verbale in alternanza tra geniali aforismi e incazzosità gratuita), José Mourinho ha trasferito la sua vocazione a sorprendere sul versante tattico, rivitalizzando tra lo sconcerto generale il modulo fossile del più puro 4-2-4. Storicamente, si tratta di un modulo praticato da squadre assolute. La sua prefigurazione eclatante risale al 25 novembre ’53, quando i 100 mila spettatori di Wembley assistono impotenti al 6-3 tennistico imposto agli inglesi dall’Ungheria di Gusztav Sebes, coi movimenti del centravanti «di manovra» Hidegkuti a risucchiare il proprio marcatore a centrocampo e ad aprire così gli spazi per le percussioni di Puskas. Ma la messa a fuoco definitiva si compirà nella trasmissione dall’Ungheria stessa al Brasile, attraverso due sequenze: lo shock – simile a quello patito dagli inglesi – ai Mondiali svizzeri del ’54, con i verdeoro schierati a WM messi sotto dai magiari (4-2); e l’arrivo, subito vincente, del grandissimo tecnico Bela Guttman al San Paolo nel ’57 (non in fuga dall’Ungheria sovietizzata, ma dall’Italia, dove ha investito due bambini «con la sua macchina americana»). Per Guttman, si tratta di un passaggio tra i tanti di una parabola inimitabile (6 campionati vinti in 4 Paesi diversi), dato che prima di quell’anno ha allenato Padova e Milan pre Rocco (con scudetto rossonero nel ’55), e dopo vincerà due Coppe dei Campioni col Benfica di Eusebio (negli anni ’61 e ’62). Per il Brasile, si tratta invece di un break decisivo, dato che il c.t. Vicente Feola porterà la nazionale alla vittoria del Mondiale svedese ’58 proprio col modulo di Guttman, esaltato da interpreti unici quali Nilton e Djalma Santos come esterni difensivi, Didi e Zito come centrali di centrocampo, Garrincha all’ala destra, Pelé e Vava di punta. E se è vero – come scrive Brera – che il sistema è a volte reso spurio dalla copertura di Zagalo (ala sinistra rientrante) o dall’impiego del più difensivo De Sordi al posto di Djalma, è indubbio che quello sia il 4-2-4 per eccellenza, un paesaggio da calcio-utopia planato sulla Terra. Soppiantato nel tempo da sistemi più concreti o accorti e raramente riaffiorato ai massimi livelli (vedi il Manchester United con Giggs e Beckham sulle esterne), il 4-2-4 è oggi un modulo in disuso in quanto – come dimostra uno studio analitico del fisico Ken Bray – più fragile nella copertura del campo e nella tessitura d’insieme della manovra. Particolarmente basso, per esempio, il numero di passaggi possibili per ogni giocatore in relazione ai 40 metri circostanti (cioè il numero di variabili in disimpegno, costruzione o lancio): soltanto 54, rispetto ai 56 del 4-3-3, ai 62 del 4-5-1 e ai 66 del 4-4-2. Il 4-2-4, insomma, è percorribile soltanto compulsando con attenzione vantaggi (la possibilità di «allargare» le difese avversarie a favore delle punte) e rischi (lo sfiancamento dei due centrocampisti). Essenziale, alla fine, risulta il lavoro dei quattro esterni: i due di difesa che appoggino il gioco e le due ali che – almeno periodicamente – tornino a coprire. una necessità dinamica che rientra in pieno nei «princìpi» di gioco anteposti da Mourinho alla disposizione geometrica in sé, a partire dall’imperativo che ogni giocatore abbia un atteggiamento incessantemente «attivo» e coordini i propri movimenti con quelli dei compagni. Solo così, infatti, una squadra sfugge al rischio di irrigidirsi in uno statico calcio-balilla, e può trasformarsi in un ensemble il cui esito è sempre qualcosa di più e di diverso rispetto alla somma dei singoli. Sandro Modeo