Note: [1] Stefano Livadiotti e Paola Pilati, Lཿespresso 2/10; [2] Bruno Ugolini, lཿUnità 2/10; [3] Enrico Marro, Corriere della Sera 2/10; [4] Mario Sensini, Corriere della Sera 3/10; [5] Roberto Mania, la Repubblica 2/10; [6] Tito Boeri, la Repubblica 2/, 4 ottobre 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 6 OTTOBRE 2008
Conflittualità e separatezza o trattativa e collaborazione. Sono le due visioni sul ruolo che il sindacato italiano dovrà avere in futuro. Stefano Livadiotti&Paola Pilati: «Tra queste due anime, stando ai dati, la prima sembra diventata largamente minoritaria nel Paese. Il 75,7 per cento degli italiani, cioè tre su quattro, è favorevole a legare i livelli retributivi agli incrementi di produttività, aziendale o di settore. Lo dice un sondaggio realizzato dall’Ispo di Mannheimer su un campione di 800 lavoratori dipendenti. Ma un altro sondaggio, realizzato nel 2007 dalla Cgil, dice di più. E cioè che oltre un quarto di coloro che sono favorevoli agli incentivi ad personam preferirebbe trattarli direttamente con il padrone. Passando sopra la testa dei sindacati». [1]
Venerdì prossimo avrebbe dovuto concludersi il negoziato tra Confindustria e sindacati per la riforma dei contratti triennali, «una specie di Costituzione del lavoro italiano». [2] probabile che un accordo verrà firmato senza la firma della Cgil. A detta del più importante sindacato italiano, la trattativa è finita perché «la proposta presentata dagli imprenditori non protegge i salari e scarica sui lavoratori le incertezze economiche». [3] Secondo la Cgil col nuovo sistema nel passato quadriennio i lavoratori avrebbero perso 1.357 euro, per Confindustria (assecondata da Cisl e Uil) ne avrebbero guadagnati 1.718. Guerra di cifre anche per il 2008-2011: 2.503 euro in più per viale dell’Astronomia, 1.914 in meno per corso d’Italia. [4]
Per Cisl e Uil il comportamento della Cgil è pretestuoso. Paolo Pirani, segretario confederale della Uil: «Ci sarà il recupero dell’eventuale scostamento tra inflazione prevista e inflazione reale, sia pure depurato dalle componenti importate». [3] Guglielmo Epifani, segretario della Cgil: «I lavoratori pagherebbero due volte l’aumento della benzina e della bolletta energetica: una volta come consumatori, una volta come lavoratori dipendenti». [5] Altro punto di scontro: lo spostamento del baricentro degli accordi dal livello nazionale a quello aziendale (con il governo pronto ad alleggerire fiscalmente gli aumenti contrattati in questa sede): la Cgil è convinta che in questo modo il contratto nazionale non coprirebbe più le retribuzioni rispetto al costo della vita senza alcuna garanzia di una effettiva diffusione della contrattazione decentrata. [3]
Perché il nostro paese torni a crescere, è essenziale che le regole con cui si determinano i salari vengano cambiate. Tito Boeri: «Lo aveva chiesto una commissione presieduta da Gino Giugni, il padre dello Statuto dei Lavoratori, ben undici anni fa. Ci voleva, secondo la Commissione ”un maggior decentramento contrattuale”, capace di attribuire al ”livello decentrato competenze maggiori in temi quali la flessibilità organizzativa, l’orario di lavoro ed il salario per quanto si riferisce alla quota variabile e per obiettivi”. Da allora sindacati e Confindustria hanno giocato a procrastinare la riforma, rinfacciandosi la responsabilità dei continui rinvii». [6]
La Cgil non vuole l’aumento del ruolo della contrattazione aziendale, per legare la retribuzione all’andamento dell’impresa, con corrispondente riduzione del salario negoziato al livello centrale. Pietro Ichino: «Per evitare la spaccatura, la segreteria della Cgil è andata alla trattativa indicando questo obiettivo: aumentare il ruolo della contrattazione aziendale, senza però ridurre il ruolo del contratto collettivo nazionale, che anzi va difeso. Ma, finché la torta da spartire non aumenta, come si fa a dare più spazio alla contrattazione aziendale, se non a spese di quella nazionale?». A leggere bene, spiega Ichino, anche Confindustria mira a ridurre la contrattazione aziendale nell’interesse di imprese medie e grandi del Nord che vorrebbero usare il contratto nazionale «come scudo contro le ”piattaforme rivendicative” aziendali ritenute eccessive». [7]
La prospettiva di un accordo separato angoscia il Pd, che a quel punto non saprebbe con chi schierarsi tra Cgil e Cisl/Uil. [8] Daniela Preziosi: «Mezzo gruppo dirigente, forse più, è sbilanciato sulla Cisl e comunque insofferente verso l’ultimo strappo di Epifani». [9] Augusto Minzolini: «L’immagine di un rapporto diretto tra partito e sindacato, già devastante ai tempi del Pci, ora è letale per la Cgil. Ne mina la credibilità un po’ come è avvenuto con la magistratura politicizzata. E per il sindacato la situazione è ancora peggiore visto che la sua immagine si è appannata: nel ”95 il referendum radicale contro l’automatismo della trattenuta sindacale, per esempio, passò con il 56 per cento dei consensi. Se fosse proposto oggi un quesito simile, si arriverebbe al 70». [10]
All’origine dello scontro tra Cgil e Cisl c’è una profonda divergenza sulla missione del sindacato. Livadiotti&Pilati: «Rivendicazione-conflitto-piazza per Epifani, trattativa-accordo-cogestione per Bonanni». [1] Nel mondo visto dalla Cgil la democrazia sindacale è sotto attacco. Susanna Camusso, segretario confederale, candidato alla successione di Epifani (il cui mandato scade nel 2010): «Ecco la sostanza del modello confindustriale: tempi limitati per il confronto; sempre prendere o lasciare; niente conflitti». Nel mondo visto dalla Cisl, la possibilità di affrontare le novità economiche e sociali è legata al cambiamento del metodo. Pirani: «La Cgil non ha voluto fare l’accordo sulla riforma dei contratti all’epoca di Montezemolo, non l’ha voluta fare durante il governo Prodi. Adesso con grande ritardo ha definito con noi e la Cisl una piattaforma unitaria. Ma fa fatica a passare dalle proposte all’accordo. Prevale il movimentismo». [11]
Secondo gli industriali, la Cgil dice No al merito. Federica Guidi, presidente dei giovani imprenditori: «Nel terremoto finanziario globale il nostro Paese, forse, si sta mostrando un po’ più solido, e sa perché? Perché abbiamo un tessuto di piccoli e medi imprenditori che non hanno mai pensato tanto a derivati, futures e quant’altro, ma prendono ogni giorno un aereo per andare in giro per il mondo a vendere i loro prodotti. Questa è economia reale, non ”di carta”. E dobbiamo metterla in grado di competere». [12] Per la Cgil, Confindustria vorrebbe ridurre il contratto nazionale a un atto notarile, «cioè la prosecuzione con altri mezzi della deregulation che ha portato ai crolli capitalistici in corso nel mondo. Con l’aggravante che non ci sarà nessuna banca centrale a salvare dai fallimenti quotidiani chi va ogni giorno a fare la spesa al supermercato» (Gabriele Polo). [13]
Da almeno cinque anni, ma la tendenza è partita con l’introduzione dell’euro, in Europa molti hanno abbandonato la centralizzazione della contrattazione collettiva. Luciano Costantini: «A parte il caso della Gran Bretagna dove si realizzano quasi esclusivamente accordi di secondo livello, in Spagna, in Germania, in Francia - per citare gli esempi più recenti - è andato assumendo sempre maggior peso il contratto ”accessorio”. In Spagna, in particolare, gli accordi di secondo livello sono quasi tutti ”territoriali” e pochi ”aziendali”. Accordi nei quali si stabiliscono non soltanto gli aumenti nelle buste paga, ma vengono prefissati, turni, orari, flessibilità organizzative. un dato di fatto che i Paesi dove i due livelli convivono ed anzi prevale il secondo, la produttività è in costante crescita mentre dove il sistema è ancora centralizzato la produttività ristagna. Ed è, purtroppo, il caso dell’Italia». [14]
Tre sono le opzioni prese in considerazione a questo punto da Confindustria. Roberto Mania: «Un accordo con tutti se ci sono le condizioni; un accordo con chi ci sta; nessun accordo. Non è di poco conto che - a quanto pare - per questa terza soluzione si sia schierata la Fiat di Sergio Marchionne e Luca Cordero di Montezemolo, ex presidente della Confindustria. Insomma è chiaro che il rapido e improvviso mutamento dello scenario mondiale ha finito per mettere il tema della riforma dei contratti in secondo piano. Non è questa la priorità degli industriali, non è di questo che si discute nelle sedi territoriali e di categoria. Ora c’è la crisi da affrontare». [5]
Gli economisti de lavoce.info hanno proposto una soluzione. Ichino: «Prevedere nell’accordo interconfederale un ”premio di produttività” di facile applicazione universale (per esempio, il monte premio aziendale potrebbe essere determinato in percentuale sul margine operativo lordo risultante dal bilancio, o sulla sua variazione nell’ultimo anno); consentire che la struttura di questo premio sia liberamente adattata dai contratti nazionali alle esigenze particolari di ciascuna categoria; e soprattutto stabilire che il premio stesso si applichi soltanto se non ne sia contrattato uno diverso al livello aziendale». [7]
Se l’accordo non si raggiunge, la prospettiva è quella di un brusco e drammatico passaggio di fatto al modello opposto. Ichino: «Negli ultimi anni i contratti collettivi nazionali sono stati rinnovati con crescenti difficoltà, comunque nella maggior parte dei casi in grave ritardo; ora potrebbero moltiplicarsi le categorie – a cominciare dalla più grande, quella metalmeccanica – nelle quali il contratto nazionale non si rinnova affatto: a quel punto gli aumenti contrattuali verrebbero interamente concessi o negoziati al livello aziendale. E probabilmente l’attuale Governo sarebbe pronto ad assecondare questa evoluzione del sistema varando autoritativamente per legge un meccanismo di determinazione amministrativa del ”salario minimo”». [7]
Il ”salario minimo” sarebbe implicitamente sostitutivo del contratto collettivo nazionale. Tito Boeri: «La riforma della contrattazione e della rappresentanza spetta alle parti sociali, ma questo non vuol dire che il Governo non possa facilitare il raggiungimento di un accordo. Se venisse finalmente introdotto in Italia un salario minimo orario, come in molti altri paesi europei, tutti si troverebbero costretti a rivedere le regole della contrattazione salariale al più presto. Il salario minimo non solo serve a ridurre la povertà fra chi lavora, ma obbliga i sindacati e i datori di lavoro a fare i conti con quei milioni di lavori che oggi sfuggono alle maglie sempre più larghe della contrattazione collettiva gestita a livello nazionale». [6]