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 2008  ottobre 04 Sabato calendario

L’Europa teme la sindrome americana che bussa alle sue porte, ma è la sindrome irlandese che dovrebbe maggiormente preoccuparla

L’Europa teme la sindrome americana che bussa alle sue porte, ma è la sindrome irlandese che dovrebbe maggiormente preoccuparla. Sul banco degli imputati Dublino aveva già preso posto nello scorso giugno, quando i suoi elettori avevano bocciato il Trattato di Lisbona gettando la Ue in una crisi istituzionale grave e tuttora irrisolta. Da quel momento tutti in Europa hanno indossato i guanti bianchi per provare ad ammansire i ribelli del gaelico. E invece da Dublino è arrivato un secondo colpo, inferto questa volta dal governo e non meno destabilizzante del primo. In pieno allarme per la tenuta delle banche e dell’ intero sistema finanziario, il premier Brian Cowen ha deciso di garantire per due anni la totalità dei depositi nei principali istituti di credito del Paese. Senza informare in anticipo né gli altri governi europei né la Commissione di Bruxelles. Provocando un immediato afflusso di capitali in cerca di approdi sicuri e in fuga da altre contrade della Ue. Suscitando l’ira dei britannici e il diplomatico disappunto degli altri. Lanciando ai mercati, soprattutto, il più pericoloso dei segnali: qui siamo in Europa, i governi agiscono ognuno per proprio conto, e se qualcuno vuole speculare su chi sarà il primo ad imitarci si accomodi pure. Non sarà la mossa irlandese a far precipitare la malattia di Wall Street, e nemmeno a determinare la misura del contagio transatlantico. Ma la decisione unilaterale di Brian Cowen è certamente una conferma del malessere che accompagna la ricerca europea di risposte rassicuranti a una crisi finanziaria che è anche crisi di fiducia e di credibilità. Ne sanno qualcosa Sarkozy, Brown, Berlusconi e la signora Merkel che oggi si incontrano a Parigi con l’intento di lanciare, appunto, un messaggio calmieratore. Per poter tenere la riunione dei quattro senza troppo irritare gli altri, si è dovuto precisare che si tratta dei quattro membri del G-8 che sono anche soci della Ue. Per ottenere la presenza del britannico Brown si è dovuto garantirgli la natura squisitamente intergovernativa dell’appuntamento. Per staccare il biglietto della signora Merkel l’Eliseo ha dovuto smentire che la Francia caldeggi un fondo di salvataggio europeo, che drenerebbe le finanze tedesche oltre far venire l’orticaria a Brown. Insomma, in agenda resteranno gli interventi nazionali, e sarà la misura del loro (cauto) coordinamento a dover rassicurare i cittadini di ogni Stato europeo. Certo l’Unione non è l’America, non ha un governo unico né politico né economico, e non può dunque elaborare (qualora ne avesse bisogno) un equivalente del piano Paulson. I governi, grandi e piccoli, sono gelosi delle loro autonomie e non accetterebbero un regolatore comune. La Bce, non è chiaro se per pragmatismo politico o per convincimento economico, ratifica lo status quo e considera più che sufficienti forme di coordinamento leggero. Tutto ciò faciliterà oggi, circoscrivendolo, il compito dei Quattro di Parigi. Del resto i risultati degli sforzi compiuti sinora sono sul tavolo, e si è visto, dal salvataggio di Fortis a quello di Dexia, che quando serve i governi diversi sono pronti a lavorare insieme. Molto bene, non è l’ora del panico. Ma dai Quattro e magari da qualcun altro, se non oggi in un futuro molto prossimo, è lecito attendersi qualcosa di più. Nessuno, di questi tempi, è in grado di prevedere la portata e la durata della crisi cominciata a Wall Street. Potremmo trovarci, in Europa, ad affrontare emergenze forse oggi improbabili, ma non impossibili. E allora, dati per scontati gli interessi di ognuno e le suscettibilità nazionali che ben conosciamo, l’Europa deve mostrarsi in grado di costruire insieme un efficace scudo salva-risparmi e salva- banche (in quest’ordine). Non soltanto perché la tempesta finanziaria l’impone. Anche perché questa Unione europea che non riesce a parlare ai suoi cittadini ha una straordinaria occasione per farsi sentire da tutti. E perché se l’emergenza ci fosse, e l’Europa rimanesse a braccia conserte, non servirebbero nuovi dispetti irlandesi per sancire la sua definitiva condanna. Franco Venturini