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 2008  ottobre 08 Mercoledì calendario

Vanity Fair, mercoledì 8 ottobre Un pomeriggio d’afa tropicale, nella giungla di Sumatra, mi sono seduta sotto una capanna di legno e ho bevuto un ricco caffè di cacca

Vanity Fair, mercoledì 8 ottobre Un pomeriggio d’afa tropicale, nella giungla di Sumatra, mi sono seduta sotto una capanna di legno e ho bevuto un ricco caffè di cacca. Aveva, in effetti, un sapore cremoso con sfumature di cioccolato, e per un attimo, mentre bevevo, concentrandomi sul palato sono riuscita a dimenticare la sua provenienza: le budella di un esotico animale, inesistente alle nostre latitudini, di nome luwak. Del Kopi Luwak mi aveva parlato, la prima volta, un amico australiano: «C’è questo caffè di merda, sai. A Sidney costa 50 dollari la tazza». una roba rara, aveva spiegato. La produzione è scarsa: 500 chili all’anno, niente, se non ti ricordi da dove viene. di difficile raccolta: le curiose donnole che lo evacuano, i luwak appunto, sono in via d’estinzione. E poi, aveva detto, vuoi metterela bellezza della fermentazione nella pancia di un mammifero? La natura è fantastica: i luwak si pappano i migliori chicchi di caffè delle piantagioni di arabica di Sumatra; chicchi che, dentro la pancia, perdono la polpa e lasciano intatte le bacche, defecate integre, e pure parzialmente "tostate". I fan più accaniti sostengono che è tutta una questione di enzimi, che attaccano le proteine e donano al caffè, rinato per vetuste vie, un sapore ricco e meno amaro. E pazienza, dicono, se poi le bacche vengono raccolte a mano dai contadini nella foresta, un po’ come i cittadini raccattano la pupù dei cani sulle strade dei centri urbani. Nel giro di qualche anno, questo è certo, il Kopi Luwak è diventato un cult: il più costoso caffè del mondo. Beatificato dalla rivista Forbes, consacrato in America dal talk show di Oprah, venduto a 1.500 dollari al chilo su eBaye nei migliori cofee shop di New York e Hong Kong, Vancouver e Sidney, Londra, e adesso anche Milano. Intrigata dalla storia, dal suo alone di mistero, e dalla sua chiara follia, mi rivolgo a un ricercatore di Giacarta. Eko Maryadi chiede qualche giorno di tempo, poi ne chiede ancora, ammette che è un mistero, sospetta l’esistenza di un cartello interessato a mantenere segrete le rotte dei preziosi escrementi. Poi un giorno, quando sto per rinunciare, mi scrive: «Victory!». Ha trovato un piccolo produttore: John Sianturi. sarà lui a mostrarci la strada.  così che un pomeriggio estivo sbarco nella calura di Medan, nel Nord di Sumatra, nel Nord dell’Indonesia. Più che un luogo è una favola. Dolci colline e fertili vallate; piantagioni di vaniglia e cacao; nell’aria il profumo dei chiodi di garofano, all’orizzonte profili di vulani. A Sidikalang, la zona del caffè, un omino con tre penne in testa e le mutande maculate si agita davanti a una folla muta. In viaggio verso Sud, in direzione Sumbul, attraversiamo villaggi di capanne di legno e contadini dalle facce bruciate. Molti vendono il caffè normale, di qualità arabica, i volti immobili sotto i tipici cappelli a cono, parcheggiati sul ciglio della strada. Nessuno ha il Kopi (caffè) Luwak. C’è un motivo. Fino a non molto tempo fa, quando ancora non andava di moda nelle capitali occidentali, per la gente dell’isola le bestie erano una peste da sterminare: ladre di polli, di frutta e di caffè non godevano di una buona reputazione, e neppure di una buona vita. John Sianturi, un signore gentile, dal biglietto da visita strepitoso (Dinas Kehutan Dan Perkebunan Kabupaten Dairi, ovvero: guardia forestale della città di Dairi), dice che da piccolo metteva le trappole nell’orto, per proteggere il sereno razzolare delle sue galline. E ancora oggi ha amici, ignari, che trattano i luwak come in passato: a bastonate. A fargli cambiare idea fu il più inatteso degli eventi, che attribuisce a un oscuro Robin Hood di Sumatra, un genio del marketing, tuttora sconosciuto: il primo uomo al mondo, presumibilmente indonesiano, ad aver venduto all’Occidente a prezzo altissimo i bisogni solidi di un animale. « stato incredibile. Vado sul sito dello show di Oprah Winfrey e che ci troco? Il caffè più raro al mondo, il Kopi Luwak. Ho pensato: quelle donnole maledette!».  così che si è imbarcato nella più ardua delle imprese: convincere i contadini che le fecei, in effetti, sono preziose. Ha dovuto convincere se stesso, prima: c’è riuscito studiando per tre anni alla facoltà di Agraria dell’Università di Giava il tratto digestivo dei suoi ex pelosi nemici. Conclusione: «L’intestino dei luwak fa faville». Così, dopo aver trascorso l’infanzia a far loro la guerra, preso finalmente atto del loro valore, bisognava adesso trovarli. Dove? Si ricordò che nella foresta di Lae Pond ce n’erano almeno seicento. Quando finalmente ci arriviamo, sta per scoppiare un glorioso temporale tropicale. L’acqua batte sopra il tetto del nostro ammaccato taxi, sulla lamiera delle capanne e sui panni messi ad asciugare sui rami delle palme. Gultom, il capo dei braccianti al lavoro nella piantagione di Sindoro, ci dà il benvenuto sotto un affollato portico di legno. Sedute sopra tappeti di plastica, ci sono una decina di contadine. Paiono vampire, dentro sarong lisi. Masticano in continuazione la droga dei poveri dell’Asia: le foglie di una noce esotica che toglie la fame, rende felici e colora la bocca di rosso sangue. Le guardo, una ad una: povere e ridanciane, inebriate dalle foglie. La loro vita è tutta lì: un lavoro di letame, e una foglia per amica. Dei 250 manovali della piantagione, soltanto una ventina si sono detti disponibili alla peculiare raccolta. «Gli altri pensano che John sia pazzo», fa Gultom, l’energico capo. «Prima, il Kopi Luwak se lo compravano i miserabili per due rupie. Poi è arrivato lui e ha detto no, guardate che la merda è buona». Fa un cenno alla moglie, che arriva con una busta di plastica aperta. « di stamattina», dice. Dentro ci sono grani bianchi frammisti a residui neri. Bene, dico, improvvisamente a corto di parole. Gultom ne prende una cucchiaiata e me la piazza sotto il naso. «Non ha un cattivo odore», spiega. vero. Sa di terra bagnata. «Di solito puzza a causa dei colibatteri, per questo la nostra è orrenda. Ma i luwak non ce l’hanno, i batteri, e l’odore è neutro». Chiedo, all’improvviso a disagio, come mai i residui siano ancora lì, assieme alle bacche. Non li lavano? «Certo che no. La specialità è proprio quella. Se li lavi, togli il sapore». Comincio a non sentirmi molto bene. La moglie dice che dal momento in cui i mammiferi la fanno al momenro in cui è pronta passa solo una settimana in cui è essiccata, pestata e setacciata. John Sianturi fa sì col capo. Le donne ci danno dentro con le foglie. La pioggia batte sul tetto di lamiera. Senti Silalahi, la contadina che mi siede al fianco, è particolarmente allegra. Partecipa alla raccolta soltanto da una settimana, prima si rifiutava. Guadagna in media dai 50 ai cento dollari al mese. Nell’alta stagione, se tutto va bene, e i luwak vanno di corpo regolarmente, arriva a raccoglierne 12 chili alla settimana. In media, spiega John, la produzione si aggira intorno ai 25 chili al mese, che vende a un compratore di Giacarta per 35 dolalri al chilo (la normale qualità arabica costa meno di un decimo, sotto i tre dollari). Sapete, dico, che negli Stati Uniti c’è chi la paga 1.500 dollari per un chilo? Senti Silalahi non dice niente, è come parlassi di un’altra dimensione, senza foglie. Gultom ne approfitta per mettermi sotto il naso un’altra busta (« nuova nuova. Appena arrivata»). Sua moglie, una signora silenziosa dal volto dolce, col sarong in testa, mostra il temuto risultato finale: il caffè macinato e solubile, che sta per mescolare all’acqua dentro un bicchiere giallo. Quando, alla fine, arriva l’ora della degustazione, quando ho esaurito le domande e non posso più farne a meno, bevo. denso. ricco. forte. Sa di cioccolato. una bufala megagalattica. Mi guardo intorno. Le contadine mi guardano curiose. Hanno un’aria soddisfatta. Hanno l’aria che hanno i poveri alle repse con una insperata opportunità di riscatto. Naturalmente, loro non bevono. Chiedo perché. Risponde, per tutte, Senti Silalahi: «Non la beviamo, noi, questa merda». Imma Vitelli