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 2008  settembre 28 Domenica calendario

La Stampa, domenica 28 settembre Ani (Turchia). La via della seta passava di qui. Ma questa antichissima città, prima di essere attraversata dalle carovane, era stata la capitale dell’Armenia, arricchita con mille e una chiesa

La Stampa, domenica 28 settembre Ani (Turchia). La via della seta passava di qui. Ma questa antichissima città, prima di essere attraversata dalle carovane, era stata la capitale dell’Armenia, arricchita con mille e una chiesa. Oggi, dopo dieci secoli, sopravvivono solo sei edifici e una moltitudine di pietre sparse ovunque sul terreno, assieme a frammenti di ceramica colorata. La via della seta proseguiva verso oriente attraverso il ponte sul fiume Araks. Oggi quel passaggio è ridotto a due torri solitarie, martoriate dal tempo, dall’incuria e dai terremoti che puntualmente devastano l’Anatolia. Una torre si appoggia alle antiche mura di Ani, appartiene alla Turchia, quella sulla riva opposta all’Armenia, il fiume in mezzo disegna la frontiera. I due Paesi non hanno relazioni diplomatiche, questo è l’ultimo confine che sopravvive immutato dai tempi della guerra fredda, quando la Turchia era la sentinella armata dell’Occidente sul confine meridionale, di fronte all’Unione Sovietica. Da questo lato era schierato l’esercito più numeroso dell’Alleanza Atlantica, da una base turca decollò nel 1960 l’aereo spia americano catturato dai russi, che alimentò a Mosca un memorabile processo contro il suo pilota. Tra le due torri passa solo l’acqua del fiume e il vento. Il monte Ararat, dove si depositò l’arca di Noè dopo il diluvio, completa la suggestione di questo luogo, abitato solo da piccoli gruppi di turisti, e da qualche gregge. Ma la suggestione di Ani, con le sue rovine e il suo silenzio, in qualche modo esaspera, invece che ammorbidire, l’incomprensione tra i due stati. Per anni questa è stata una zona militare, impraticabile. La ragione vera, profonda, del divieto non era la sicurezza ma il genocidio armeno, compiuto nel 1915 dai Giovani turchi. Quel massacro di un milione e mezzo di uomini, donne e bambini - secondo le stime degli armeni - ha rappresentato fino ad oggi un tabù, un ostacolo insormontabile per la normalizzazione. E ha influenzato poi le relazioni dei paesi occidentali con la Turchia, attraverso la numerosa e potente diaspora sparsa per il mondo, due volte più numerosa dei quasi tre milioni di compatrioti armeni rimasti in patria. Ma nelle scorse settimane - mentre la cronaca e la diplomazia si dedicavano ai clamori della guerra incrociata tra Georgia e Russia - dal Caucaso meridionale invece arrivavano segnali di una svolta storica. Il presidente della Turchia, Abdullah Gul, lo scorso luglio veniva in visita nella città delle mille e una chiesa. Guardando la torre oltre il fiume si chiedeva pubblicamente: «Veramente l’Armenia è così vicina a noi?». In diplomazia poche parole chiare, pronunciate nel momento giusto, nel luogo giusto, contano più di un trattato. Questa interrogazione retorica, dalla risposta scontata, giungeva improvvisa e beneaugurante, nonostante la disattenzione internazionale. In realtà era stata sollecitata dall’altra riva, quando il presidente Serge Sarkissian aveva invitato il suo collega turco alla partita di calcio tra le due nazionali per i mondiali 2010. E il 6 settembre Gul era puntualmente in tribuna, nonostante lo stadio di Erevan sorga a poche centinaia di metri dal Museo del genocidio. Come si usa tra buoni vicini i turchi hanno subito trasmesso l’invito per la partita di ritorno. Le pietre di Ani non hanno abitanti che commentano la diplomazia del pallone, ma oggi casualmente è in visita il colonnello che controlla regolarmente la frontiera con la Georgia, l’Armenia e l’Iran. Dice che il confine è perfettamente tranquillo, che la linea ferroviaria può essere riaperta velocemente. Cinquanta chilometri prima di Ani c’è la città di Kars, avamposto turco ai confini con il Caucaso. Gli edifici meglio conservati sono le case in pietra costruite durante l’occupazione russa nel 1800, sui portali sono ancora incise date eloquenti: 1896, 1902. Ma contemporaneamente ovunque compare il profilo di Atatürk - in pietra, in bronzo, su tela, stampato sui calendari - padre fondatore della Turchia moderna e laica, l’uomo che depose l’ultimo sultano, che garantì la parità dei sessi, che adottò l’alfabeto latino. Oggi la repubblica turca è governata dal Partito islamico democratico. Un grande striscione nel cuore della città proclama: «Benvenuto Ramadan». E una catena di supermercati - florida in Svizzera, in Italia, e sbarcata anche qui nell’Anatolia estrema - si è adeguata senza perplessità al calendario islamico proponendo il pacco della fertilità, che non contiene alcun prodotto prodigioso, ma solo farina, riso, olio, zucchero. Questa città fu risollevata dall’oblio sei anni fa con «Neve», scritto da Orhan Pamuk, che non era ancora accompagnato dalla celebrità del Nobel. Il libro racconta di alcune ragazze che si tolgono la vita quando, per entrare all’università di Kars, sono costrette a mettere il velo. Ma le ragazze che si incontrano per strada non sembrano affatto diverse nei modi e nell’abbigliamento dalle loro coetanee di Istanbul. In coincidenza con la riapertura delle scuole ovunque sono in vendita diari ispirati alla bambola Barbie e zainetti rosa squillante con immortalate le fate Winx, copiate in modo sfacciato. Il primo interlocutore per nulla casuale è il libraio Sinan Opak con barba, basette e capelli lunghi e nerissimi, come certi personaggi ottocenteschi. proprietario di un negozio ibrido, che mescola in vetrina abiti e libri. curdo, la sua famiglia arrivò qui da Erevan. Mette la musica balcanica di Bregovic e sfila da un sacchetto di plastica un libro, come sfilerebbe un maglione dalla sua confezione. Parla con fastidio di «Neve», dice che ogni scrittore può descrivere un suo luogo di fantasia, ma se usa il nome di una città vera non può deformarla come ha fatto Pamuk. Parla invece con orgoglio dei tempi passati quando turchi, armeni, azeri, russi, estoni, qui convivevano senza problemi. Con orgoglio ricorda la Repubblica indipendente del Caucaso del sud, che partiva da Batumi in Georgia arrivando fino a Kars, progettata all’inizio del secolo scorso e mai completamente realizzata. Dice che l’incontro tra i due presidenti con il pretesto del pallone è stata una buona cosa per la città. Mostra ottimismo anche Hasan Duman. cassiere in un ristorante, i suoi genitori vengono dal Daghestan, il proprietario del locale dall’Azerbaigian. Sostiene: «Non si può vivere nella inimicizia eterna. Spero che quando verranno gli armeni per la partita di ritorno li accoglieremo ancora meglio». La signora Leila, in una banca tutta vetri e metallo, dice che andrebbe a lavorare in una filiale oltre confine anche domani mattina. Mentre il vecchio deputato repubblicano Aziz Kaygisiz ha una visione un po’ diversa: il pallone è stato un buon pretesto, ma l’apertura con l’Armenia è il risultato delle pressioni europee e americane su Ankara. Per trovare il negozio del fotografo Yildirim Ozturkkan bisogna chiedere molte volte. «Ho dedicato quaranta anni alla storia della mia terra e della mia città, alla sua cultura. Io sono nato a Erzurum, mia madre veniva dal Daghestan, il nonno dall’Azerbaigian. Quando mi chiedono da dove veniamo io dico che appartengo a una famiglia turca». Sta preparando tre libri sulle costruzioni militari a Kars, sulla città e i suoi dintorni, sulla storia di Ani. Ogni mese da oltre trenta anni va a fotografare l’antica capitale degli armeni. Ha visto i monumenti indebolirsi, perdere alcune parti, ha visto i restauri orrendi fatti con la pietra di Van, decisi dai suoi compatrioti al ministero, ad Ankara. Ha documentato anche i danni creati dagli stessi armeni, quando utilizzavano l’esplosivo in una cava di pietra che guarda Ani, sull’altra riva del fiume, e che viene utilizzata ancora oggi, nonostante a quindici chilometri ci sia un’altra cava. L’eco delle esplosioni, schiacciato tra il solco profondo delle due rive, rimbalzava inesorabile come un proiettile sugli antichi edifici, e ogni volta si portava via un pezzo di muro. Solo la protesta indignata di alcuni turisti americani fermò l’uso dissennato della dinamite. Ozturkkan arriva anche lui, come tutti gli interlocutori incontrati qui, al libro di Pamuk. «Stava seduto lì, esattamente dove è seduto lei. Mi chiedeva come era cambiata la città. Gli mostravo stampe antiche e foto di vari periodi. Si è fermato solo qualche giorno, ma gli è bastato per descrivere una città piena di donne con il velo. Ho letto solo poche pagine, e poi ho abbandonato quella tortura». Oggi è venerdì, il giorno della preghiera. Il fotografo preferisce mancare l’appuntamento alla moschea, ma spiegare bene le vicende di questa terra di confine. L’università di Kars non porta il nome della città, ma si chiama università del Caucaso. E anche le forme di formaggio locale, che invadono da sole decine e decine di negozi, introdotte molti anni fa dalla setta russa dei molokani, adesso hanno un marchio caucasico. I produttori hanno chiesto da alcuni anni di riaprire il confine, tentano una loro artigianale diplomazia delle caciotte. La vera identità di questa provincia mescola pascià ottomani, governatori zaristi, commercianti armeni, curdi, turchi che danno il benvenuto al ramadan e loro compatrioti nostalgici di Atatürk. Dopo la partita del 6 settembre, vinta per inciso dai turchi, c’è ottimismo anche nel cuore di Istanbul, non solo nella Anatolia più lontana. A pochi minuti da piazza Taksim sorge la chiesa della Santa Trinità, una delle trentatré chiese armene rimaste aperte nella antica capitale dei sultani. All’ombra di queste mura viene confezionato il quotidiano Marmara Gazetesi, ha una tiratura di milleduecento copie per una comunità che conta in città approssimativamente ottantamila armeni residenti, ai quali vanno aggiunti circa trentamila compatrioti che vengono direttamente dall’Armenia. Da molti anni lo dirige Rober Haddeler, che però nella copertina dei suoi numerosi libri si firma Haddedjian. Dice senza incertezze che la sua comunità ha valutato l’incontro di calcio «con ottimismo e piacere». Secondo lui vari giornalisti, scrittori, professori turchi avevano cominciato a preparare da alcuni anni la strada del riavvicinamento. Non può indicare una cifra per tutti gli armeni che oggi vivono in Turchia, ma pensa che non sarà certo la sua comunità a rallentare il dialogo. Le perplessità e i maggiori ostacoli vengono dai suoi compatrioti della diaspora. Fuori dalla chiesa, tra l’orda dei turisti che calpestano il centro pedonale, nei negozi di musica, le canzoni di Aznavour sono vendute senza pregiudiziali per la sua nazionalità. Sarebbe andato anche lui alla storica partita di calcio se la cattiva salute non lo avesse bloccato. Tra l’orda dei turisti avanza anche uno studioso occidentale inviato dal suo governo in Turchia, dopo aver lavorato per alcuni anni sulla questione armena, e avere imparato la lingua turca. Racconta che da alcuni mesi un diplomatico di Ankara è stato mandato in Israele per studiare la lingua armena. Secondo lui la vera svolta si era delineata nel 2005, alla conferenza sull’Armenia organizzata dalla università Bilgi a Istanbul. In quell’occasione un professore turco aveva detto: «Non arriveremo mai a convincere il mondo esterno della nostra versione sul genocidio». La conferenza fu tollerata dalle autorità. E successivamente la questione del genocidio non è stata più una pregiudiziale per cominciare a parlare tra le due rive del fiume. Poi nel gennaio 2007 Hrant Dink, giornalista armeno, fu ucciso a Istanbul da un giovane nazionalista turco. La vittima era stato condannato a sei mesi di carcere per «insulto alla identità turca», quando aveva scritto: io non sono turco, sono armeno di Turchia. Credeva in una sua via di convivenza tra musulmani e cristiani. Scriveva che oltre alle vittime del 1915 bisognava interessarsi agli armeni rimasti, a quelli rientrati in Turchia. «Mi sono reso conto che parlare di chi è rimasto è più difficile che parlare dei morti. Per gli armeni e per i turchi è lo stesso… Su questo tema non penso che il mondo armeno si comporti con molta onestà. Quando pongo agli storici armeni domande su quelli che sono rimasti mi dicono di non complicare le cose». Complicherebbe le cose raccontare anche come gli armeni della diaspora furono accolti prima della seconda guerra mondiale nella Armenia sovietica dai loro stessi compatrioti che lì erano rimasti. Venti anni fa in Francia fu pubblicato «Le mele rosse di Stalin» che raccontava la vita dei coniugi Der Sarkissian, ritornati con entusiasmo nella terra d’origine dopo la fuga dalla Turchia e l’esilio in Francia. Quando cercai a Erevan i funzionari di partito e gli uomini della polizia, che li avevano angariati in quegli anni del socialismo reale, tutti si giustificavano accusando il sistema. Il fatto di appartenere a un popolo di antica civiltà, che aveva subito una grande tragedia, non aveva prodotto alcuna solidarietà tra i suoi figli in quella stagione. «L’inquietudine della colomba», il libro che raccoglie gli scritti di Dink, appare oggi come un lasciapassare verso la normalità, di fronte all’integralismo dei nazionalisti turchi e ai nostalgici della grande Armenia. Appena due giorni dopo la partita di pallone Volkan Vural, ex ambasciatore di Ankara, rilasciava una lunga intervista dove spiegava che è arrivato il momento di stabilire relazioni diplomatiche con l’Armenia, che la Turchia ha già perso troppo tempo senza agire dopo la caduta dell’impero sovietico e la nascita della Armenia indipendente, che il dibattito sul genocidio deve essere risolto dai politici più che dagli storici. Concludendo: «Se avessi il potere io direi: tutti gli individui che vivevano all’interno delle frontiere della Repubblica di Turchia e che erano stati deportati all’epoca dell’impero ottomano, tutti gli armeni e tutte le altre minoranze, possono ottenere automaticamente assieme ai loro discendenti la cittadinanza della repubblica, se lo desiderano… E presenterei egualmente le mie scuse». Ai tempi dell’impero ottomano gli armeni erano stati ministri, responsabili degli arsenali, della sanità militare, delle dogane, ambasciatori nelle più importanti capitali, governatori, prefetti, costituivano un’ampia fetta della classe dirigente. Alle olimpiadi del 1912 la rappresentanza turca era composta da due soli atleti, entrambi armeni, che erano anche i portabandiera di quel paese. La Turchia allora era governata dal sultano, e apparteneva completamente al mondo islamico. Dopo un secolo, un avvenimento sportivo ricompone una frattura profonda. Oggi, per un paradosso storico nemmeno sorprendente, nella repubblica laica voluta da Atatürk governa il partito islamico democratico. Valerio Pellizzari