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 2008  ottobre 01 Mercoledì calendario

Nappa Giuseppina

• Casal di Principe (Caserta) 28 aprile 1960. Moglie del boss della Camorra Francesco Schiavone (Sandokan), arrestata il 30 settembre 2008 • «[...] quando sono andati a prenderla, ha detto ai poliziotti: “Che vi pensate, che adesso avete salvato l’Italia?” [...]» (Fulvio Bufi, “Corriere della Sera” 1/10/2008) • «[...] È la donna che si faceva vanto di avere un lavoro come insegnante di sostegno e tuttavia percepiva uno stipendio di 4 mila euro, come emergerebbe dalla contabilità mafiosa del gotha familiare. Una madre che aveva partorito gli ultimi tre eredi durante la dorata latitanza-casalinga del padrino [...] è accusata di ricettazione: avrebbe incassato ogni mese quel denaro proveniente dalle estorsioni e dagli affari illeciti del clan. [...] la sera in cui tutta Casal di Principe si fermò a inveire contro la trasmissione di Santoro che ospitava la serata monografica su Roberto Saviano, la signora Nappa parlò con Repubblica. E dedicò all’autore di Gomorra, senza mai chiamarlo per nome, un acido riferimento. “Apprendo che qualcuno ha regalato a quello scrittore un rap, Cappotto di legno (la bara, ndr). Che dire? Se a lui piace così, va bene. Nel suo libro ha infilato uno dietro l’altro gli atti giudiziari degli ultimi dieci anni: e una cosa così la chiama anche libro? Mah, io penso che si è arricchito e basta. Bene, beato lui”. La stessa signora Schiavone reagì con stizza all’appello lanciato ai tg nazionali dalla pentita dei casalesi, Anna Carrino, convivente del boss Bidognetti, ed ex socio di suo marito. “Io non ho niente di cui pentirmi. La mia vita si conosce - sibilò la Nappa - Così come in tanti conoscono la condotta, la vita e il mestiere delle altre”. Riferimento velenoso, ma non esplicito, alle presunte relazioni extraconiugali della signora Carrino. [...]» (Conchita Sannino, “la Repubblica” 1/10/2008) • «L’ambasciatrice, i Casalesi l’hanno sempre chiamata così Giuseppina Nappa, la mite, fragile, obbediente moglie di Francesco Schiavone, Sandokan. Una donna così fedele e religiosa che lui aveva deciso di chiamarla “Maria Pia”, il nome che le si addiceva meglio. Sì, era proprio tutta casa, figli e “affari”, Giuseppina Nappa, dove per affari s’intendono estorsioni, minacce, trasmissione di ordini.[...] Di figli nel frattempo ne ha avuti sette. Le ultime, Angelica e Chiara, negli anni Novanta durante la latitanza del marito. Lo cercavano dappertutto Sandokan, che era davvero un imprendibile, ma lui ogni tanto tornava a casa e metteva incinta la moglie. Lo scovarono il 10 luglio 1998 in un bunker costruito sotto uno dei trenta appartamenti, di proprietà degli Schiavone, tenuti sfitti proprio per dare rifugio ai latitanti in caso di blitz e retate. Quel giorno i cani poliziotto fiutarono dai bocchettoni, che sfiatavano sulla strada, l’odore di Sandokan: gli agenti li tapparono e lui, per non fare la fine del topo, poco dopo sortì dalla botola gridando: “Non sparate, ci sono con me mia moglie e la bambina”. Anche quel giorno Maria Pia, che di lì a poco sarebbe diventata l’Ambasciatrice, era a fianco al suo uomo: riusciva a calarsi attraverso un buco strettissimo, dove si poteva entrare solo per i piedi, e a turno gli portava un figlio, camicie pulite, cibi caldi, video cassette con un corso di pittura. Sì, gli piaceva dipingere a Sandokan, leggeva libri di storia, andava pazzo per Napoleone: sul cavalletto i poliziotti trovarono un ritratto dell’imperatore, ripreso di spalle. Niente male. Fu dopo quel giorno che Maria Pia diventò l’Ambasciatrice. La grande casa di famiglia, al processo Spartacus, era stata messa sotto sequestro, doveva diventare la sede dell’Inps, poi non se ne fece niente. Nei primi tempi decise di seguire il marito che girava per le carceri “dure” d’Italia, scrisse ai giudici lamentando abusi sulla posta e i colloqui: “Sono pronta a fare lo sciopero della fame, hanno creato un mostro e vogliono privarlo dei diritti umani”. Sembra che riuscisse a comunicare con lui attraverso un complicato sistema di segnali come toccarsi il mento, stringere gli occhi e così via. Ma gli affari sono affari, bisognava riprendere le redini della famiglia. Era lei, secondo l’accusa, a fare da cinghia di trasmissione tra Sandokan e il clan, sempre lei a gestire le riscossioni e, se qualcuno non pagava, trovava il modo di far sapere che Sandokan era dispiaciuto per “la mancanza di collaborazione”. Che era quasi una condanna a morte. [...]» (Rita Di Giovacchino, “Il Messaggero” 1/10/2008).