Giuseppe Scaraffia, Il Sole-24 Ore 28/9/2008, pagina 37, 28 settembre 2008
Il Sole-24 Ore, domenica 28 settembre All’inizio, erano tutti di ottimo umore. Francis Scott Fitzgerald si era impegnato a cronometrare i round di tre minuti tra due amici scrittori, Ernest Hemingway e Morley Callaghan
Il Sole-24 Ore, domenica 28 settembre All’inizio, erano tutti di ottimo umore. Francis Scott Fitzgerald si era impegnato a cronometrare i round di tre minuti tra due amici scrittori, Ernest Hemingway e Morley Callaghan. Ma il sangue che colava dalla bocca di Hemingway aveva fatto dimenticare a Fitzgerald di annunciare la fine del primo round. Dopo avere tentato di colpire Morley, Ernest ricevette un colpo alla mascella che lo mandò ko. «Oh, mio Dio! Mi ero scordato e il round è durato quattro minuti!», si scusò Fitzgerald, ma Hemingway, irritato, replicò: «Se vuoi vedermi prendere una batosta non hai che da dirlo. Ma non dire che è stato uno sbaglio». L’episodio, raccontato in diverse versioni, creò una serie di malintesi tra i protagonisti. In realtà Ernest non riusciva a sopportare di essere mandato al tappeto davanti a un grande come Scott, per giunta così generoso con lui. A Hemingway piaceva farsi fotografare a torso nudo, con i pugni tesi, nella posa del celebre John J. Sullivan. Salire sul ring era alla moda tra gli americani di Parigi. Ezra Pound correggeva i manoscritti di Hemingway in cambio di lezioni di pugilato. Ma il più singolare resta senza dubbio il dandy surrealista Arthur Cravan, alto due metri e pesante cento chili, messo ko al primo round dal peso lordo nero Jack Johnson. Fin dall’inizio Cravan non aveva avuto dubbi sull’esito finale e si era messo in guardia per proteggere il viso tanto amato dalle donne dai colpi del campione del mondo. Vedendolo tremare, Jack Johnson si era fatto richiamare dall’arbitro perché insisteva a prendere il poeta a calci nel sedere. Un gancio all’orecchio sinistro aveva concluso la tragicomica vicenda. Ma solo nella realtà, perché da allora Cravan avrebbe decantato la propria resistenza: a sentir lui aveva resistito per ben sette round, prima di cedere. Non erano certo i primi a lasciarsi attrarre dalla violenza ben regolata di questo sport, che ebbe tra i suoi più illustri praticanti il gigantesco Alexandre Dumas e il muscoloso Théophile Gautier. Byron non si limitava a praticare il pugilato, ma aveva attaccato i ritratti dei pugili più noti sul paravento della sua camera da letto. Alla boxe inglese, Byron preferiva quella francese, la Savate, una tecnica mista di pugni e calci, ispirata alle arti marziali orientali, che affascinò anche il placido Rossini. «La nostra boxe è assolutamente identica a quella inglese, tranne che è il contrario», puntualizzava Dumas, compensato da Mike Tyson, che in un’intervista ha dichiarato: «Sono l’Edmond Dantès della boxe», rendendo un insospettabile omaggio all’eroe del Conte di Monte Cristo. A trasformare il boxeur in protagonista fu Jack London, che ne fece un eroe proletario, operaio di giorno, pugile la sera per sfamare la famiglia. Ma la purezza del dilettante si scontrava, nelle sue pagine, con la corruzione degli scontri truccati e delle scommesse. «Quando combatte, vedrai il vecchio irlandese selvaggio che gli bolle nelle vene e gli guida i pugni. Non è che perda il sangue freddo. Lui è un iceberg bruciante e ghiacciato allo stesso tempo». Da parte sua, nemmeno in crociera London smetteva di allenarsi ogni giorno alla boxe. L’idealista Albert Camus vedeva la boxe come uno sport «assolutamente manicheo». Non lo considerava un gioco, come il calcio o il tennis, ma «un rito che semplifica tutto. Il bene e il male, il vincitore e il perdente». Per altri era più immediato. Roger Nimier doveva sfogare la sua sete di battersi: «Sono attratto dal sudore e dal sangue, dalla gratuità della cosa. E potermi battere realmente mi sembra stupendo». Per Norman Mailer la boxe era un modo per dare un senso alla violenza che a tratti lo possedeva trascinandolo nelle risse dei bar. In La sfida (Einaudi) rievoca il confronto, nel 1975, tra lo sfrontato Cassius Clay e il calmo, invitto, George Foreman, concentrandosi sulla preparazione e sul carattere dei campioni. In Quartieri d’inverno del 1982, Osvaldo Soriano, aveva trasformato il pugilato in una lotta per la libertà del proprio Paese, l’Argentina. Lo stesso aveva fatto Il campione di Luis Sepulveda. Il celebre incontro di boxe tra Benvenuti e Griffith del 1968 aveva aperto un dibattito tra Pasolini, ostile alla destra, incarnata, a suo parere, da Benvenuti, e Arpino, insofferente di quella strumentalizzazione politica dello sport. Ma il più emblematico degli scontri fu, nel 1938, quello tra Max Schmeling e il nero americano Joe Louis: il campione nazista andò al tappeto dopo pochi minuti vanificando ogni discorso sulla supremazia ariana (David Margolick, Oltre la gloria, il Saggiatore). Il romanzo di Olivier Adam formula un nuovo profilo del pugile: qui un giovanotto solitario e ribelle, che alterna il ring a una deprimente attività di becchino. Con un linguaggio duro e teso, Adam segue la parabola del suo eroe, la sua incapacità di mediare e la sua corsa verso l’autodistruzione. Si perde sempre, ma quello che conta, sembra dire, è dare e ricevere pugni senza abbandonare la lotta. «Scrivere di pugilato significa scrivere di se stessi e ci obbliga a indagare non solo la boxe, ma i confini stessi della civiltà, cos’è o cosa dovrebbe essere umano», dichiara Joyce Carol Oates nel suo Myke Tyson (Mondadori), «sul ring violentemente illuminato l’uomo agli estremi compie un rito atavico»... Giuseppe Scaraffia